Christmas smoothie

Ieri, un’amica che non vedevo da un bel po’ di tempo, mi ha detto: ehi,  da un po’ che non scrivi…

Eh già, rispondo io, con un misto di malinconia e di senso di colpa che so contraddistinguermi da sempre quando vorrei tanto fare una cosa e me la sento quasi come un obbligo, ma non ce la faccio proprio a farla…

Te lo volevo dire da un po’, continua la mia amica, ribadendo tra le altre cose, che sono l’unica “cosa” che legge, perché a lei leggere non piace. Al che, inizio a pensare. Scrivere, per me, è un po’ come lavarmi le ascelle: non è che ci debba pensare, non è che lo debba programmare, viene così, perché esce direttamente dalla mia testa, dalla mia pancia, come un rigurgito di pensieri, spesso senza senso, incomprensibili, alla maggior parte delle persone. Scrivere mi viene naturale da quando ero piccola. Se sono in giro, se parlo con qualcuno, persino se sto guardando un film o una serie, i miei pensieri si trasformano in parole scritte, come se, nella mia mente, vi fosse una macchina da scrivere che dovesse riprendere tutto in mano, per fare sì che si fermi lì, in quel momento, e non se ne perda traccia.

Da un po’ di tempo a questa parte i pensieri sono sempre vorticosi. Non sono capaci di starsene fermi in attesa che io possa tradurli in parole scritte. Se ne vanno, ruotano, scappano, si riavvolgono, rifuggono, come in un tunnel scuro in cui la luce resta accesa solo per brevi periodi, per poi spegnersi e lasciare tutto avvolto dal buio. I pensieri sono sempre lì, non è che se ne vanno, ma la pancia non ce la fa a riscriverli, è lei a scappare questa volta.

Sono  successe un bel po’ di cose brutte, negli ultimi periodi. Forse è proprio per quello che me ne sto zitta da tempo. Odio chi si crogiola nel proprio dolore, odio chi lo manifesta come per avere in cambio pacche sulle spalle e sorrisi di circostanza. Odio sentirmi osservata, rivoltata, da chi del tuo dolore ne fa fuori un bel commento da esibire quando sei di spalle. Io il mio dolore me lo vivo come un passato di verdura, come una spremuta d’arancia, me lo bevo al volo, trangugiato, e storco la bocca in attesa che passi, finalmente, l’onda d’urto che ti nausea, che ti apre lo stomaco, che ti fa strizzare gli occhi. Ma il dolore non passa così in fretta, non è una fotografia che resta impressa sulla pellicola e poi se ne sta lì, a guardarti fisso. No, al contrario, il dolore ti rimescola, ti rivisita, fa capolino quando meno te lo aspetti, mentre stai ridendo con gli amici, quando ti stai lavando i capelli, mentre ti trucchi, davanti allo specchio, cercando di renderti presentabile. E allora non mi va di lasciarlo entrare anche in quella parte del mio mondo dove sto meglio con me stessa. Non voglio che sporchi le pagine bianche delle mie parole scritte, non voglio. Non me lo merito.

Così, senza rendermene conto, sono secoli che non metto nero su bianco nemmeno un pensiero, nemmeno un’emozione. E forse è meglio così, perché chi mi legge, e non so se siete due o cento, insomma, chi mi legge, non mi sopporterebbe davvero più e mi direbbe SMETTILA, di pensarci, di arrovellarti, di rimuginarci, di soffrirci, di tornare lì, dove non ti fa bene stare.

Allora, ho tirato un sospirone, ieri, e mi sono detta che forse era ora di tirare una riga su quello che è successo, almeno metaforicamente e per iscritto, e ricominciare a tradurre i miei pensieri scemi in parole. Non importa se non le leggerà nessuno, non importa se chi le leggerà non capirà una beneamata minchia di quello che sto scrivendo. Importa solo che ho chiuso una piccola porticina, o forse che l’ho aperta, finalmente.

Beh insomma, è Natale, che dire. Un Natale del cazzo come non se ne vedevano da….bah, credo da sempre. Un Natale mascherato, che finge di essere un Carnevale. Un Natale in cui aver paura di stare insieme. Assurdità delle assurdità, proprio durante la festa che si è sempre fatta portavoce del TUTTI UNITI, TUTTI ABBRACCIATI… chi lo sa se va bene così, se è tutta una cazzo di macchinazione degna del peggiore dei film distopici, chi lo sa se staremo in casa belli sereni o se ce ne andremo a zonzo a infettare parenti e amici. Chi lo sa se finirà, se continuerà per chissà quanto, o se finalmente, tra poco, torneremo a bearci della compagnia reciproca e ad averne anche le palle piene, ad una certa, come si è sempre fatto.

Beh, insomma, è Natale, e domani faccio i gnocchi, o gli gnocchi, che non ho ancora chiaro come si dica.

È Natale, un Natale in cui mancherà un pezzo, un bel pezzo grosso, che è sempre mancato ma che manca ancora di più, proprio adesso che davvero non c’è più.

Perché, purtroppo, come citano i proverbi e i modi di dire e i vecchi adagi delle nonne…non ti accorgi davvero di quanto manchi qualcosa o qualcuno, fino a che non ti rendi conto di non poterlo realmente più avere…né vicino, né lontano, né al 100%, ne ad un misero 30% cacato che ti fai andare bene giusto perché…come si suol dire…pitost che niente, l’è mei pitost.

E con questa bella massima da anziana degli anni 50, saluto tutti augurando un Buon Natale del cavolo.

Ridete, bevete, mangiate, prendetevi anche a sberle se necessario. Facciamo tutte quelle robe che si fanno a Natale, senza troppo pensare al fatto che quest’anno sia una merda. Facciamo una specie di frullato di Natale, mettiamoci dentro un sacco di cose: l’albero, il pesce, i giochi in scatola, i baci, il vischio, l’amore, la malinconia, la gente che ci sta sulle palle, le scuse per esserci comportati male, le chiacchiere, il sonno, le tartine, tanti bicchieri di vino, l’ananas, le arachidi, gli zii, i fratelli, i nonni, quelli che sono soli, quelli che vorrebbero esserlo, la magia dei bambini, l’ansia da prestazione, l’arroganza, la follia, le storie che finiscono, la gioventù, gli occhi felici, le stronze impenitenti, la gente senza cuore, le tovaglie belle, i bicchieri di cristallo, le cozze, la nostalgia dei parenti, babbo natale che è un coglioncello. Buttiamo tutto in un frullatore inventato e premiamo un tasto.

Di solito i frullati mi fanno schifo, ma quest’anno andrà bene anche quello. Ho tre figli, un marito due cani, una mammetta vecchietta, tanti amici, tante amiche. È tutto nel frullato. Me lo bevo d’un sorso. (aggiungo un goccio di vodka ché, si sa, l’alcol sta bene dappertutto).

una sciocca copertina

Basta con questa manfrina vecchia e decrepita del “siamo tutti uguali”, non vi siete stancati di ripeterlo fingendo che sia vero ? non vi è entrata a noia questa frase fatta che non vuol dire proprio nulla, che parla di inchiostro e salame sugli occhi ?

Ragioniamo al contrario, una volta tanto: siamo tutti diversi, e Dio grazie. E’ qui che stanno la verità e la bellezza, è qui che cresce il seme del progresso, della tolleranza, di un mondo pulito che non crolli come un castello di carte.

C’è quello alto, quello magro, quello con le maniglie dell’amore, quello con i capelli verdi, con gli occhi blu, quella che quando ti vede si gira dall’altra parte perchè le stai sul cazzo, quella che legge in chiesa e indossa i sandali, quella che ha i tatuaggi anche dove non batte il sole, quello che ride, quella che piange, ci sono i neri, i bianchi, i marroncini, i gialli, gli azzurri, i carminio, se proprio vogliamo parlare per colori…ma anche lì, santo cielo, c’è quello stronzo, quello ironico, quella che sa fare bene le torte, quella che ce l’ha solo lei, quello che lavora sodo, quella che cammina con i piedi a papera…. conoscete almeno uno di queste tipologie di persona ? ecco, se avete risposto sì, siete normali, siete umani, siete quello che siete…punto. Il concetto di uguaglianza non risiede nel colore, nell’orientamento sessuale, nella cultura, nelle tradizioni, sta lì, nella persona e in nient’altro, semplicemente, come un neo, come un braccio, come un piede, come un capello bianco in mezzo a una chioma nera: sta dove sta e dove è giusto che stia….

Mi domando come sia possibile che ancor oggi non sia un principio di base, un emendamento mondiale, un comandamento scritto nella roccia.

Ho un’amica speciale, che è per me una figlia, una sorella, un’amica del cuore, come si diceva da teenager, questa amica ha una moglie, che, nel tempo, è diventata altrettanto speciale, per me e per la mia famiglia….sì, avete capito bene, due donne sposate….Oddiooooo, scandalo, abominio, assurdità, ma come si fa? I miei figli amano queste ragazze e in loro vedono quello che vedo io: amore, intelligenza, amicizia, persone, punto. Vedono queste sfumature, al di là del loro sesso, del colore della loro pelle, dei loro usi e costumi, di quanto siano disordinate, di come cucinino un uovo al tegamino, di quanto tirino gli angoli delle lenzuola quando rifanno il letto. Vedono queste sfaccettature che le rendono speciali e care e indispensabili, perchè io e GrandePuffo abbiamo insegnato ai nostri figli a vedere nel cuore. Ci siamo riusciti? Sì. Queste due amiche sono la nostra famiglia, punto e di che colore sono e di quale genere sia il loro amore, a noi non ce ne frega un cazzo. Ho un’altra amica, è una ragazza molto giovane, ha mille idee in testa, ha un animo ribelle e la caparbietà che alla sua età le fa vedere ogni possibilità che la vita può offrirle. Ha negli occhi la luce del coraggio, ama la sua famiglia come poche persone sanno fare, ha tatuato indelebilmente sulla pelle un concetto che, per la sua età anagrafica, è così anacronistico da renderla inequivocabilmente meravigliosa. Questa ragazza ama una ragazza e il suo amore è pulito e gentile, come lei. Il mondo tuttavia non è fatto per l’amore, ahimè. Il mondo è impaurito, è scuro e subdolo, è irrimediabilmente inquinato da una serie di preconcetti quasi impossibili da sradicare. Siamo tutti uguali è una frase che vale solo quando tutto va come deve andare, quando il mondo ci rimanda immagini edulcorate da serie tv patinata. Ma quando ci troviamo a dover guardare al di là, ecco che cadono tutte le modernità e di colpo si torna indietro nel tempo. Improvvisamente l’amore diventa sbagliato, la mente si chiude e due anime pulite soffrono, per mano di chi dovrebbe conoscere e amare il loro cuore, al di là di qualsiasi altra sfaccettatura. La violenza di un’idea, di un divieto, di un principio sbagliato, ferisce e addolora tanto quanto un taglio, un colpo di pistola, una botta in testa, una porta chiusa in faccia o dietro le spalle. Vorrei davvero che i miei figli potessero crescere in un mondo dove la normalità stia nell’apprezzare ed esaltare la diversità, nel guardare oltre, nel credere che parlare e confrontarsi sia meglio che giudicare ed allontanare, gratuitamente. Siamo tutti uguali è una stronzata dai, ammettiamolo, lo siamo forse davanti a Dio, ma anche qui ho qualche dubbio ormai. Siamo tutti diversi ed è qui che risiede la meraviglia, la ricchezza, la possibilità, di crescere e vivere, di amare e migliorare, di sapere cosa c’è dietro, a dei capelli blu, a una faccia da stronzo, a due occhi azzurri, a un paio di orecchie a sventola. E anche se è difficile, se costa fatica, se occorre rivalutare tutte le convinzioni che una vita intera ha incancrenito in noi, vale la pena provarci, provare a sentire anzichè ignorare, provare a capire, anzichè giudicare, provare semplicemente ad essere diversi.

La mia amica è una persona, prima di qualsiasi altra cosa, la sua “morosa” è un’altra, persona, prima di qualsiasi altra cosa. Per me è sufficiente questo, per renderle speciali. Se fossero brave a cantare, impedite a dipingere, eccezionali a fare biscotti, non cambierebbe l’opinione che ho di loro. Perchè quindi dovrebbe cambiare solo perchè si amano ?

Forse apprezziamo un essere umano solo in base ad una singola sfumatura? Forse accetteremmo di essere giudicati solo in base ad una singola sfumatura? Lo riterremmo corretto?

Siamo tutti, indistintamente, un tripudio di bellezza e bruttura. Eccola l’uguaglianza. Diversi gli uni dagli altri, amabili e odiabili in eguale misura. Sta a chi ci incontra scoprire chi siamo senza leggere di noi solo una sciocca copertina.

47 e quasi un giorno intero

Ieri era un giorno speciale, uno di quei giorni in cui meglio che io mi tenga impegnata, così da non pensare, non rimuginare, non arrovellare, un cervello che a volte va così veloce che un autovelox non riuscirebbe nemmeno a fargli una foto sfocata. Ieri era il giorno in cui, se tu tirato fufossi ancora qui, avrei imbandito una tavola deliziosa, tirato fuori i bicchieri fighi che fanno tanto Dinasty, cucinato molte più cose di quante ne avremmo poi mangiate, infilato un vestitino leggero che sa di estate, stappato una bottiglia di vino bianco frizzante, fresco al punto giusto. I ragazzi avrebbero attaccato i festoni sopra la tavola, elettrizzati e caricati a molla come le occasioni speciali richiedono, e avremmo aspettato di sentire il citofono. Mamma si sarebbe messa a piangere, un pochino, giusto gli occhi inumiditi, chè sta diventando vecchia e si commuove per tutto, io, rimestando qualche pietanza iper calorica e per nulla estiva avrei urlato a qualcuno di andare ad aprire la porta, la cagnolona sarebbe corsa in ingresso a farti le feste e saresti entrata tu, risata contagiosa e capelli color rame. Ci sarebbero stati gli amici, quelli che ormai non sono pià davvero amici, ma parte della famiglia, e dopo aver mangiato e bevuto come non ci fosse un domani, i ragazzi avrebbero spento le lucie acceso le candeline sulla tua torta preferita: triplo ciocciolato con glassa fondente e codette colorate. Avremmo cantato tanti auguri a te fino a farci pulsare le vene sul collo e avremmo finito con fischi e applausi. E tu, imbarazzata e felice, avresti fatto un inchino teatrale, come solo tu sapevi fare. Dal ripostiglio sarebbe uscito, come un coniglio dal cilindro, un pacchetto di carta verde acqua, chiuso da un fiocco di raso dello stesso colore, solo più acceso. Avresti scartato con minuzia il pacchetto, con le tue mani bianche e piene di lentiggini, senza rompere nemmeno un angolo di carta, ripiegando con cura il nastro accanto a te, sul tavolo, e con gli occhi e con il sorriso, avresti detto che la vestaglia color cipria e nera era proprio quella che desideravi. L’avremmo avuta uguale, e avremmo scherzato come due imbecilli fingendoci due donne di malaffare, schiamazzando come nostro solito. Avremmo bevuto troppo e mangiato fino a non poterne più e con i baffi di cioccolato intorno alle labbra ci saremmo salutate, a tarda serata, con un abbraccio di quelli che hanno voce e anima, promettendo di vederci l’indomani, iok e te sole, per una festa privata di chiacchiere e cazzate. Avrei rassettato la cucina ripensando alla tua faccia mentre scartavi il pacchetto, sapendo con certezzaassoluta che appena a casa ti saresti infilata nella vestaglia che ti avevo regalato. Se tu fossi qui sarebbe tutto più bello, ne sono sicura, mi sentirei meno sola quando mi sento sola e avrei un posto dove andare quando mi viene voglia di urlare. Se tu fossi qui, oggi, avresti 47 annie un giorno quasi finito, avresti riso per la profezia dei Maya, e saresti vecchia un bel pò e se tu fossi qui io avrei già preso una ceffa sul coppino per averti detto che sei vecchia un bel pò. Il tempo non torna indietro, una banalità che a volte è solo tale, e a volte ti fa rabbrividire. Lo so e più ne prendo consapevolezza, più il dolore sembra diventare pungente. Manca sempre un pezzettino cazzo, manca, e non c’è niente che lo riempie. Oggi va così, sotto il sole, sudata come un maialino al girarrosto, ho troppo tempo pensare e finisco a scrivere, come tutte le volte che qualcosa gira un pò per il verso sbagliato e l’unica cosa che mi fa stare meglio è riempire un foglio. Se tu fossi qui, di fianco a me, non ci staresti nemmeno sotto tortura sotto un caldo così forte, con la tua pelle bianca così diversa dalla mia. Se tu fossi qui mi faresti anche il culo per quanto sono fissata per il sole. Ma se tu fossi davvero qui, io sarei meglio di così, e di questo sono certa come sono sicura di avere un naso importante e dei bei piedi.

Happy birthday saltimbanco

A te, che stai crescendo a vista d’occhio e che ogni giorno mi stupisci sempre più, a te, che il sorriso e il buonumore sono all’ordine del giorno, anche in questi tempi strani e bui, a te, che sai trovare il bello in ogni cosa, che parli a raffica, sempre, che non stai fermo, mai, nemmeno un secondo, a te che tieni in braccio la nostra cagnolona come fosse un neonato, a te che subisci le angherie di tua sorella e i malumori di tuo fratello senza scomporti più di tanto, a te che sei una cascata, un vulcano, un insieme di energia e creatività, da sempre per sempre, a te che disegni, scrivi, suoni, incostante e impetuoso, come se ogni giorno fosse una festa, a te che sogni sempre in grande e che i limiti, le costrizioni, sono solo un obiettivo da raggiungere e superare, per arrivare sempre più in là, a te che quando non ti si sente sicuramente è perchè stai combinando qualche guaio, a te che l’amicizia è la prima cosa e se fossi una ragazzina della tua età vorrei esserti amica per godere della tua felicità perenne, a te che eri un mangione cicciotello e ora sei uno stecco con le gambette da airone e vivresti di sole caramelle, a te che conosci a memoria film e cartoni e ti appassioni a tutto, buttandoti a capofitto in ogni impresa, a te che abbracci e baci come quando eri un soldo di cacio, senza vergogna, senza timore, a te che hai la mia faccia e la sensibilità di chi prenderà una marea di sportellate sui denti, a te che vuoi diventare un’artista e vivere in un attico a Manhattan,a te che diventi bello ogni giorno un pò di più e mi rubi il cuore e mi riempi l’anima. A te che da quando siamo chiusi in casa in questo strano periodo, ogni sera ti sdrai sul letto accanto a me e chiacchieri e ti fai fare le coccole, esattamente come quando eri piccolo. A te che sei un essere speciale e che dovrai scontrarti con mille delusioni, perchè la vita, quelli come te, li tratta sempre un pò a pesci in faccia. A te che non si può non amarti e non si può non odiarti, perchè averti vicino non è sempre così facile e rilassante. A te che mi hai resa mamma per la seconda volta, 14 anni fa, smentendo e cancellando la paura che l’amore infinito che provavo per tua sorella non potesse moltiplicarsi. A te che mi hai paziente all’inverosimile e che hai stemperato le mie ansie, facendomi capire che c’è qualcosa di bello in ogni giornata se solo si ha voglia di aprire davvero gli occhi. A te, che sei strano e matto e colorato e multitasking e semplice e complesso e puro e pittoresco, proprio come piace a me. A te, che qualcuno fa fatica a capirti, ad apprezzarti, ma non davvero cosa si perde. A te, piccolo grande saltimbanco, tanti auguri di buon compleanno!

C’era un volta un mondo strano…

C’era una volta un mondo strano, un mondo pieno di frivolezza e vuoti da riempire. Questo mondo stava sempre un passo avanti e i suoi abitanti credevano di essere i migliori, sempre. Guadagnare e spendere erano le parole d’ordine, così si aprivano porte e si chiudevano portoni, gli uni in faccia agli altri. Era tutto semplice: con un solo click si poteva ottenere qualsiasi cosa, si compravano oggetti e si accatastavano robacce, grazie a quelle, ci si sentiva ricchi e soddisfatti, per poco. Sin da piccolissimi persino i bambini imparavano ad accumulare e a perdere interesse verso qualunque cosa, fosse essa bellissima o totalmente insignificante. Si faceva perennemente a gara, a chi avesse il vestito più costoso, il telefono più accessoriato, la macchina più luccicante, il ruolo più influente, a chi facesse le vacanze nel posto più lontano e a chi fosse meno povero, meno sconosciuto, più connesso. Si perdeva tempo ad osservare il nulla, esplosivo ed attraente, negli schermi dei cellulari, dei televisori sempre più grandi e sempre più sottili, a ricordare quanto di poco spessore fosse quasi tutto quello che usciva di lì. Ci si lamentava, di tutto e di niente, pur di dar voce alla negatività che, così come gli oggetti nelle case, si accumulava sui cuori e nelle menti delle persone. Si correva, da una parte all’altra, incapaci di fermarsi, di pensare, di valutare, di amare, di parlare, incapaci di dirsi un ti voglio bene, ti amo, ti odio, tutti carichi di una smania d’essere e avere così forte da cancellare e rendere vuoto ogni sentimento. Ci si domandava come mai le giornate fossero così frettolose e come il tempo trascorresse così velocemente, non bastava mai, non finiva mai. A gennaio si pensava a luglio, a luglio si programmava dicembre, in una rincorsa perenne a qualcosa da fare, da acquistare, da prenotare, da scandagliare, tutti in fila, uno dietro l’altro, verso obiettivi così comuni da far somigliare gli uomini ad un gregge sfilacciato di pecore cieche. E quando si stava male, quando qualcuno soffriva, arrancava, penava, era più facile stargli alla larga o occuparsene di sfuggita, un messaggio, una breve e poco sentita pacca sulla spalla…domani passa…d’altronde…passa tutto. Un mantra facile e indolore, a segnalare una così profonda mancanza di empatia da rasentare l’alienazione. Quel mondo strano andava avanti, nonostante tutto, ignaro di essere sul punto di implodere, di rovesciarsi, mattone su mattone, antenna su antenna, una guerra dopo l’altra, notizie appena accennate di una disfatta velata e potente, silenziose urla in mezzo al rumore assordante del vuoto. Tutti contro tutti, muso contro muso, dandosi le spalle, occupando il tempo, ammazzandolo, il tempo, riempiendo ogni singolo spazio, per paura della noia, contro il terrore del silenzio, che, quando arriva, costringe a pensare, a guardarsi in faccia. Lentamente il mondo ha ceduto ma gli uomini hanno continuato a correre, su un terreno sbriciolato e cedevole, incuranti del disastro a cui stavano assistendo, a cui stavano prendendo parte, di cui erano i diretti responsabili, tutti, nessuno escluso. Lentamente il mondo ha sussurrato, chiedendo aiuto, gli uomini lo hanno ignorato, chi si ferma è perduto, chi si ferma non guadagna, non accumula, non assimila, non vince. Lentamente il mondo ha iniziato a sgretolarsi, delicatamente, come solo il mondo sa fare, convinto, ancora, dopotutto, che bastasse un segnale, un cenno, che gli uomini avrebbero sicuramente accolto, considerato. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi tiene chiusi gli occhi. Il mondo ha arrancato, l’uomo lo ha sentito, ma la smania d’essere e avere era divenuta così forte, così feroce ed irrazionale da cancellare tutto il resto. Così, da un nulla che nessuno pare conoscere, ecco l’arma segreta che lo strano mondo sfodera per farsi ascoltare, per aiutare i propri abitanti, per fermare una corsa che inevitabilmente porta al precipizio. Un’arma silente, invisibile, che costringe l’uomo a fermarsi, a smettere di accumulare, di respirare. All’improvviso lo strano mondo e le sue bellezze restano l’unica cosa in movimento, in libertà. Il sole sorge, la notte arriva, il vento soffia, gli alberi crescono, gli animali escono allo di nuovo allo scoperto, la primavera fa lentamente il suo corso, vestendo il mondo di colori tenui, portando la gentilezza di cui gli occhi hanno bisogno. E l’uomo, ora, non può far altro che stare a guardare. Fermo. Immobile, costretto ad una lentezza di cui non conosce più il nome, di cui non ricordava il gusto. L’uomo ricorda allora cos’è la paura, quella paura di cui il mondo ha ben chiaro il nome. La solitudine non è più garanzia di salvezza dai fastidi d’intorno, ma una tortura e una costrizione. Le porte si chiudono, il tempo, un tempo scarso e mai avanzato, si dilata e dilata i rapporti, colora di nuove sfumature le giornate, le rende morbide, lente, da riempire, daccapo, come l’uomo non era più in grado di fare. Si ritrovano le parole, si riscoprono abitudini archiviate da anni, l’orologio sembra aver una prolunga sino ad allora nascosta. Il mondo è sempre più strano, dominato dall’arma che egli stesso ha sfoderato. L’uomo inizia ora a capire che forse qualcosa non va, inizia ad avere davvero paura, a temere di non poter più essere. L’arma è subdola, si muove veloce, miete vittime, spaventa, blocca il respiro, costringe, all’immobilità. Nemmeno in questa assurdità, nemmeno in preda al terrore gli uomini sono in grado di darsi una mano. Continuano a pensare, singolarmente, convinti che sia giusto così, che contro l’arma ognuno debba combattere la propria guerra personale. Nessuno si salva da solo.

C’era una volta un mondo strano, dove il sole, le stelle, la luna, gli alberi, i mari, le montagne, non avevano nulla da temere, non più, un mondo che si era ripreso il giusto spazio, che sapeva muoversi con il respiro primordiale che gli uomini avevano dimenticato. Era un mondo dove il tempo trascorreva lento. Gli uomini erano prigionieri, mascherati e soli, in balìa di un nemico più potente di qualsiasi click. C’era una volta un mondo che doveva reinventarsi, dove gli uomini avrebbero dovuto ricostruire i rapporti, ritrovare le parole gentili, riscoprire, i gesti semplici e i bisogni reali, imparare a non usare la diffidenza, la differenza.

Un mondo che aveva deciso di ribellarsi, costringendo i suoi abitanti a riscrivere la propria storia. Il mondo piangeva, in silenzio, conscio di aver inflitto una punizione severa, inevitabile.

L’uomo, forse, a quel punto, poteva aprire un libro bianco e inventare un nuovo capitolo.

Riempire le crepe.

Un giorno è cambiato tutto, avevo 14 anni e di colpo sono diventata grande. Quello che è accaduto sa di storie tristi, di quelle storie che, quando le racconti, la gente ti guarda appena, con gli occhi pieni di compassione, oppure sgrana lo sguardo e carica di empatia ti fa domande, con la paura tangibile di farti male, senza sapere che sta facendo il tuo gioco. Perchè parlare della tristezza la fa dimagrire, sfumare, la rende così vera da poter essere quasi digerita. Come un pezzo di pane, rimasto in bilico in gola, che ha proprio bisogno di un sorso d’acqua per poter scivolare giù. E’ incredibile come un evento solo possa, di colpo, cancellare dalla memoria giorni interi, mesi, quasi che la la mente possa fare fare spazio per una cosa sola, perchè è così grande e terribile da avere bisogno di un vuoto intorno. Le non c’era più e la stanza, un tempo scenario di mille battaglie, rimbombava di un silenzio malsano. A riempirlo, la musica a tutto volume, il tubare dei piccioni, fuori, nel caldo fastidioso di un’estate nel pieno del suo corso. Non ho voluto nulla di suo, nulla che mi ricordasse che il tempo si era fermato e poi, come un treno alla stazione, era ripartito senza di lei. Continuavo a vivere, come nulla fosse, e la gente mi guardava strano, cercando e osservando, per cogliere il momento in cui sarei andata irrimediabilmente in pezzi. Mi stavo sgretolando dall’interno, ma fuori, ero ancora la stessa. A 14 anni la vita deve essere un fiume in piena, deve scorrere senza che ci siano grosse cascate ad interromperne il corso. Io allora ero un fiume impetuoso, mille cascate a formarne una, insidiosa ed enorme, che toglieva il fiato e aveva rovinato ogni cosa. La mattina, svegliarsi era come ammettere che non fosse cambiato nulla. La casa, vuota, il silenzio, a farla da padrone. L’armadio, dove ormai avevano preso posto solo i miei vestiti, mi guardava con aria di rimprovero, memore delle mille volte in cui aveco desiderato che lei scomparisse. Essere sorelle, a 14 anni, è un’ardua impresa, essere sorelle, ed essere completamente differenti, può essere davvero estenuante. Ma l’odio è fisiologico e desiderare di essere figlia unica non è sbagliato, è normale. L’ho capito molti anni dopo, quando ormai il senso di colpa aveva eroso la mia sicurezza facendo crescere in me un’ansia subdola che non mi ha più lasciata. Lei non c’era più e io ero viva, lì, a domandarmi cosa sarebbe accaduto se le avessi voluto più bene, se le avessi detto più volte che era speciale, per me. Se non avessimo litigato, in continuazione. Se non fossimo andate in spiaggia, quel maledetto pomeriggio d’estate. Chi mi conosceva davvero bene, vedeva in me farsi strada le crepe. Chi mi vedeva per la prima volta, scopriva una persona nuova. In Giappone, quando un vaso si rompe, lo riparano con oro e argento. I cocci vengono riattaccati l’uno all’altro, utilizzando i metalli preziosi, in polvere o liquidi. Si ottengono così oggetti diversi da prima, che assumono un valore nuovo, proprio grazie a quelle crepe aggiustate. Lentamente ho messo insieme i pezzi, aggiungendo qui e lì qualcosa di nuovo o qualcosa che, nel tempo, scoprivo essere parte di me. Non so se il risultato finale fosse ed è prezioso o di maggior valore rispetto a prima, ma so che è stato ed è faticoso ed estremamente difficile non abbandonarsi alla tristezza, al vuoto che l’assenza si lascia dietro. Sono passati mille anni da allora ma, ancora oggi, nelle cose che dico, nelle parole che penso, in quello che scrivo, c’è sempre un pezzetto di lei, una briciola di quell’estate, un granello di quella mancanza. Di quei giorni, a seguire, è rimasta una paura che spesso si fa largo e riempie tutto, rubando spazio al resto, invadendo i pensieri, inquinando la mente, sporcando di buio la felicità. In questo periodo è facile perdere di vista la bellezza, è così incerto quello che ci circonda, così strano quello che stiamo vivendo. La mattina, in questi giorni, rivivo i risvegli di quell’estate, quando, aprendo gli occhi, il primo istante, ero felice e viva e normale. Ma qualche secondo era ed è sufficiente per sentire quel peso sul petto, quel velo sugli occhi che annebbia tutto il resto e rende il paesaggio sfocato. Quando mi alzo riprendo in mano i cocci e cerco, nelle stanze, l’oro e l’argento per rimettere insieme i pezzi. Ho miscele speciali che mi aiutano e mi costringono a ricompormi, ogni giorno. Così apro gli occhi e comincio ogni giornata, e grazie a quell’oro e a quell’argento, ogni giorno è diverso da quello precedente e degno di essere vissuto, perchè nuovo e prezioso. E quando, un pochino mi rompo, cammino per casa e guardo i miei ori e i miei argenti e nei loro occhi, nei loro capelli, nei loro sguardi e persino nei loro difetti, c’è un pò di lei. Sempre.

Ci sta guardando

Anni fa ho smesso di credere in Dio. Avevo quattordici anni e la vita non era stata mia amica in quel periodo. Non che a quattordici anni uno creda chissà in che Dio, e in chissà che modo, ma avevo una mia idea della religione e se ero impaurita, triste, particolarmente felice, invocavo quello che per me era Dio e chiedevo aiuto, ringraziavo, condividevo la mia gioia. Poi è precipitato tutto, in pochi mesi e quel Dio che fino ad allora aveva abitato in me, a modo mio, decise di andarsene, da un momento all’altro. Non ho ancora capito se sia stato lui ad abbandonarmi, o io a cacciarlo via, resta il fatto che, per anni, abbiamo preso entrambi le distanze, diffidenti.

Ammiro chi crede, davvero, in un Dio, qualunque esso sia. Ammiro la forza di volontà di chi ripone la propria fede, inderogabilmente, nell’idea di una entità al di sopra di ogni cosa. Io prego, a volte spesso, a volte mai, a volte solo quando ne ho bisogno, come quando si va a fare il bancomat quando finisci i contanti. Non credo di essere una credente degna di nota, ma credo di essere una brava cristiana, per quello che può significare, per quello che Dio e Gesù ricordo abbiano detto, nel corso dei secoli. Credo anche parecchi credenti non siano bravi cristiani, a dispetto di quanto professino e di quanto superbamente vogliano dimostrare. Chè, per essere bravi cristiani non basta credere in Dio, bisogna dimostrarlo, in primis a sè stessi.

In questo momento, invidio chi crede, invidio chiunque sappia trovare la calma e la serenità nel proprio Dio, qualunque esso sia. Forse per avere fede non bisogna farsi domande, non bisogna avere bisogno di risposte. Forse la fede è proprio lì, nel disinteressato amore verso un Dio che non sai dove sia nè sè davvero ti ascolti, come l’amore che si prova per i figli, incondizionato e puro, al punto di non chiedere nulla in cambio, se non la gioia stessa di provare amore.

Forse mi faccio troppe domande, forse sono troppo presuntuosa aspettando sempre e comunque una risposta, da chiunque, da qualunque situazione. Forse se semplicemente amassi Dio per quello che è e per quello che non deve dimostrare d’essere, potrei essere anch’io una persona fedele.

Ho una mia personale idea di Dio, da quei quattordici anni così lontani da sembrare due vite fa, e così vicini da non poter essere mai dimenticati. Credo che Dio sia nella bontà d’animo, nel sole che, anche in questa assurdità di mondo malato, sorge ogni mattina senza chiedere nulla a nessuno, nella meraviglia di un neonato che succhia dal seno della madre, pochi secondi dopo essere venuto al mondo e senza che nessuno gli abbia mai insegnato come fare, nei litigi dei miei figli quando preparano il tiramisù per la prima volta, insieme, nella cucina della nostra casa, nel riuscire ad uscire, dopo davvero troppi giorni, alla ricerca di un raggio di sole, per scacciare la paura con quella che da sempre è una delle mie cure preferite. Forse Dio è nel ritmo lento di questi giorni, scandito dalla colazione, dal pranzo, dalla cena, dai movimenti cadenzati delle finestre che si aprono, nel mio cortile, nella casa di fronte, nel palazzo dalle tapparelle azzurre. Dio è nella gente che si sveglia e va avanti nonostante non vi sia alcuna certezza, è nel silenzio, la sera, rotto solo dalle sirene delle ambulanze. E’ nella paura di morire, di stare male, di rimanere da soli, di non potersi vedere, di non potersi abbracciare, di dimenticarsi di tutto e di tutti. E’ nelle risate con gli amici, come se nulla fosse, nei bicchieri pieni di vino alzati davanti allo schermo di un pc. E’ nelle persone che, sole in casa, vanno avanti e tengono duro, in chi non lavora, in quelli che forse, capiranno una volta per tutte, che siamo tutti uguali, davvero.

Non so se Dio sia davvero questo o se questa mia idea è solo la scusa per non ammettere che non credo in nessun Dio, o che credo in un Dio che mi invento ogni giorno diverso, mai uguale a ieri, mai diverso da domani.

Di una cosa sono sicura però: ci sta guardando, chi da lontano, chi da vicino, senza giudicare, con lo stesso sguardo che ognuno di noi dovrebbe imparare ad usare.

come quando il mare….

E’ incredibile e meravigliosamente assurdo come la vita faccia un pò quello che le pare. Ieri abbiamo ricevuto una bruttissima notizia, forse un pò prevedibile, ma comunque triste, che ha portato un’ombra buia su tutti noi. Ci siamo fermati a riflettere su quanto sia angosciante questa situazione e tutto quello che inevitabilmente si porta dietro: ansia, solitudine, povertà, paura, morte, distanza, mancanza, diffidenza. Ci siamo guardati, io e GrandePuffo e abbiamo convenuto che questo mondo strano sia ingiusto e allucinante e siamo riusciti a trovare un sorriso tirato grazie ad una aperichat con gli amici di una vita che forse vediamo più ora in questa clausura merdosa, che quando ci si poteva davvero vedere di persona. Sarà la forza della malinconia, il bisogno di tornare ad una quotidianità che abbia sapore di normalità, sarà che ci vogliamo bene da decenni e finalmente abbiamo capito che ogni tanto occorre ricordarselo a vicenda. Sono andata a dormire con il gusto dolce amaro di un momento che a volte sembra troppo irreale per essere vero. Spesso mi fermo a pensare in questi giorni, un secondo è sufficiente, magari mentre mi insapono i capelli sotto la doccia, magari mentre sto cucinando o giocando a carte con i Puffi, magari mentre leggo un libro: sembra tutto normale e a volte anche bellissimo e rilassante e finalmente lento. Ma quando chiudi gli occhi un istante e poi li riapri, ti rendi conto che siamo nella merda fino al collo e che tutte le nostre certezze si sono sgretolate come un panino fragrante. Mi sto abituando ai ritmi casalinghi, io che non so stare ferma neanche un minuto, nemmeno quando sono troppo stanca. Mi sto godendo i Puffi e la loro adolescenza che, a dispetto della psicopatia dilagante, stanno tenendo botta come io, alla loro età e al posto loro, non sarei mai riuscita a fare. Mi sto plasmando, come un impasto in una teglia, in un’atmosfera surreale che nessuno avrebbe mai immaginato nemmeno lontanamente di dover vivere. Ma l’irrequietudine è sempre lì in agguato, dietro le tende che raccontano di come le giornate si susseguano, una dopo l’altra, nonostante tutto, in mezzo ai capelli che in un momento di follia ho spuntato finendo per somigliare alla brutta copia di Mafalda, tra le pieghe delle coperte stese a prendere un’aria di cui abbiamo ormai troppo bisogno, negli occhi di Neni, la nostra cagnolona, che vorrebbe poter correre al parco come facevamo un tempo che sembra davvero lontanissimo. Mi sono svegliata questa mattina al suono di una sveglia che mi allinea come sempre ai ritmi dei Puffi, pensando che essendo in ferie avrei potuto dedicarmi a qualche amena attività casalinga che tipo non faccio da almeno sei/sette anni (le gioie della quarantena), e aprendo gli occhi ho scoperto che, ieri a tarda sera, lo stesso giorno in cui è venuta a mancare una persona cara, è nato il nostro nipotino, soprannominato Uovo in primis da sua sorella e in second abattuta dal resto della famiglia. Un bambino bello come il sole che ha portato una raffica di vento fresco, di gioia e meraviglia. A riprova che la vita è strana e ironica e si fa beffe di noi, ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. E così, come quando il mare cancella una scritta sulla sabbia che avevi fatto con grande impegno, così, dopo un solo secondo, quasi a farsi perdonare per quella delusione inevitabile e subdola, porta con sè, nell’onda successiva, una minuscola e splendida conchiglia, luminosa e luccicante, piccola sì, ma immensamente preziosa.

….e una smorfia amara di profonda tristezza assume improvvisamente la forma di un sorriso di stupita felicità…

La primavera a “sproposito”

Sono giorni strani, sono giorni assurdi, complicati, bellissimi e bruttissimi. Abbiamo sempre detto che avremmo voluto avere tempo per fermarci, per ascoltarci, per dedicarci alla famiglia, alla casa, e ora siamo qui, bloccati, incatenati, rinchiusi, come animali in gabbia, come uccelli nella voliera. L’ansia, la preoccupazione, la noia, la tristezza, l’angoscia, la riconoscenza, e ancora l’ansia, la paura, di un nemico silente ed insidioso, siamo in una ruota da criceti che corre senza correre. La clausura di questi tempi è condita di messaggi e condivisioni, grazie ad un mondo che non sta mai zitto e che ci unisce pur nella forzata lontananza. Nascono i bambini, i fiori sbocciano, il sole splende, il cielo, fino a ieri di un azzurro incomprensibile, data la situazione, oggi si è nascosto, anche lui intristito e preoccupato. L’aria si è fatta fredda, a ricordarci che la primavera è così: imprevedibile ed altalenante, come il nostro umore in questo momento. In casa, in cinque, si sta come si sta in un manicomio: si alternano momenti di follia a momenti di amore puro, litigi, risate, sarcasmo, confidenze, i giorni sono lunghi e riempirli non è sempre facile. C’è chi disegna, chi lavora, chi guarda film, chi poltrisce, chi si annoia, chi chatta con gli amici, chi studia, chi cucina, chi mangia, chi inizia a dare segni di cedimento, dopo la quarta settimana di smart working. Lamentarsi è vietato. Un paio di giorni fa ho pensato che fosse giunto il momento di spuntare i capelli, ho così dato un minimo taglio, di un centimetro appena alla parte destra della mia chioma, ho poi chiesto aiuto a GrandePuffo, che anzichè pareggiare quell’infinitesimale centimetro ha tagliato in diagonale creando un buco al centro. Avrei voluto piangere ma nella mia mente continuavo a ripetermi che passare dai capelli di Rapunzel a quelli di Mafalda non fosse poi un così grave problema. GrandePuffa ha dovuto risolvere la situazione. E’ ufficiale: ho i capelli di Mafalda. Poco male, le cose vanno per le lunghe e non credo di dover sfilare per Coppola da qui a qualche giorno. Il tg è un colpo al cuore, ogni giorno. Le notizie sono allarmanti, angoscianti, sbiancano i volti e non curano lo spirito. Ieri abbiamo fatto le pulizie di primavera, GrandePuffo è andato a fare la spesa: tre adolescenti in casa richiedono parecchio cibo, ogni spesa è la spesa dell’apocalisse. I vetri sono pulitissimi, abbiamo lavato le tende e le abbiamo rimesse al loro posto, candide. Abbiamo curato le piante, le uniche che ancora paiono non aver capito che il mondo si è fermato. GrandePuffo, impossibilitato a correre per strada, sta ora sfrecciando sulle scale di casa, in tenuta da runner, ridicolo e meraviglioso allo stesso tempo. Si fa quel che si può, si chiamano gli amici, i nonni costretti a casa, chi da solo, chi , fortuna sua, almeno in compagnia. Si fanno videochiamate con gli amici, aperitivi sintetizzati in bicchieri di vino, patatine e schermi dei cellulari: non è molto, non è come una volta, ma è pur sempre qualcosa. Stiamo insieme, da lontano, ma insieme. Il mio pensiero va spesso a Nonnavolante, che dopo una vita non priva di solitudine si trova nuovamente sola, senza lavoro e sola, non è una ripetizione, è un’esigenza, dolorosa. Il mio pensiero va spesso agli amici che non hanno nessuno in casa con cui litigare, ridere, sorridere, chiacchierare, condividere ansie e pensieri positivi. Io impazzirei, lo so, da sempre odio la solitudine: trovarcisi costretti senza volerlo è un buon motivo per odiarla ferocemente. Siamo qui, in bilico tra la paura e il bisogno che tutti torni finalmente normale, che il mondo capisca che abbiamo capito la lezione, forse. L’ansia è una brutta bestia e tenerla a bada è un lavoro che richiede un impegno costante, quasi crudele. La mente gira vorticosamente e ha necessità che le mani si muovano e non si lascino fermare. Se avessi della vernice credo potrei iniziare ad imbiancare casa. Ho sempre detto che non avevo il tempo materiale per mettermi a scrivere un romanzo e ora che quel tempo ce l’ho, non ho le parole per iniziarlo, ironia della sorte. So che quello che sto scrivendo sembra il delirio di un folle, so che le frasi sono sconnesse e le argomentazioni forse sterili e disgiunte, ma questo è il mio stato d’animo. Scrivere della paura, dell’ansia, quella vera, scrivere di come ci si sente in un periodo simile, scrivere di come le lacrime escano da sole, in una sindrome premestruale costante che accomuna credo ormai uomini e donne, significherebbe dare voce e corpo all’angoscia. E allora taccio e cerco frivolezza laddove non ce n’è, laddove non dovrebbe essercene. Forse è per questo che si organizzano flash mob, a dispetto di una situazione assurda e terrificante, perchè così come la primavera offre fiori a “sproposito” in un mondo in pausa forzata, così noi uomini abbiamo bisogno di colore, voci allegre e sentimenti leggeri, per rendere meno nero il buco in cui siamo caduti.

Dove batte il cuore e il cervello si intromette

C’è un desiderio recondito che spinge alcune persone a farsi accettare, apprezzare, sempre e comunque, a dispetto spesso di opinioni, pensieri, stati d’animo. Nasce da infanzie burrascose, da eventi fortuiti che hanno cambiato le cose, da genitori assenti o troppo presenti che hanno scardinato certezze e creato amarezze. Nasce da chi è cresciuto nell’ombra di qualcuno, sentendosi eternamente un rimpiazzo, da chi non ha saputo farsi strada al momento giusto, nel dedalo di vie dell’adolescenza, nasce da quel pensiero fisso, dalla gelosia costante, dal sentirsi fuori posto, fuori onda, fuori dal coro. Che si sia cicciottelli o brufolosi, arruffati come gatti appena lavati o magri come rami d’albero, che si sia intelligenti oltre la media o scarsamente dotati, sinceri o inclini alla menzogna; dietro l’angolo c’è l’incertezza, il senso di inferiorità, la tristezza, a volte, e quell’aria calda dell’estate che scorre fuori dalle finestre, senza di te. Non importa da dove abbia origine, resta il fatto che è strano e a volte faticoso, sentirsi sempre al passo, sentirsi sempre in dovere di … essere, sembrare, dimostrare, captare, accaparrare, celare. Finisce che non puoi mai perdere il momento, che rincorri sguardi, necessiti di parole, di pacche sulle spalle, di conferme, di sorrisi. E ti “innamori” di nulla, ti disamori , un attimo dopo, perso in un giro di boa che ti piace così tanto da sembrare un gioco. Passioni , illusioni , rime o assonanze di uguali intenzioni. C’è che sei lì, a creare un personaggio che non è dissimile dal tuo vero io, ma che a volte si confonde, a volte si perde, a volte vorrebbe solo….riposare.

E quando sei a mille, quando intorno crepitano le faville, c’è una nota stonata che spegne la luce, una piccola crepa che lentamente si introduce, lì, dove vacillano le certezze, leggere, deboli. E ti senti di nuovo brutto, stupido, inutile. Ti giri e cerchi, quel sorriso da cui hai sottratto un lampo, ti giri e capisci, che anche questa volta non avrai scampo.

Sei prigioniero, preda, di te stesso e di quel siero di cui sei ghiotto, oggi, ieri, domani, sempre. Speri sempre sia per sempre, sia mai, sia l’ultima volta. Speri sempre di poter finalmente tirare il fiato e dire basta. Perchè è meraviglioso e terribile, insieme. Vorresti, un giorno, svegliarti e dire: ooohh, eccomi, questo sono io, solo io.

C’è della psicopatia in chi ha bisogno, infinitamente, dell’approvazione, della stima, della simpatia, del consenso, dell’amore, c’è della psicopatia, lì, dove batte il cuore e il cervello si intromette.