La palette

Oggi, con delle colleghe, in pausa pranzo, si parlava di colori. Per la precisione, si parlava di palette, ovvero di quella gamma di sfumature che, a seconda dell’incarnato, dei capelli e degli occhi e di tutta una serie di cose che non so assolutamente e che quindi evito di sciorinare, si addicono, più di altre, a ciascuno di noi. Premetto che, genericamente, la maggior parte delle donne indossa il nero come divisa ufficiale, nemmeno facessimo tutti parte dei nerboruti All Blacks. Il nero, si sa, snellisce, rende piacevolmente elegante e fine quasi qualsiasi outfit e, soprattutto, genera molto meno sbattimento di abbinamenti vari rispetto a tutti gli altri colori. Ultimamente, oltretutto, questa tonalità è diventata di gran moda anche in quei periodi dell’anno in cui, preferibilmente, ci si veste leggermente più vivaci, almeno per quanto riguarda i colori. Il nero non sbaglia mai, che sia giorno, orario di aperitivo, o una gagliardissima serata, il nero non tradisce e garantisce quell’aria tra il sofisticato e il rockettaro a cui tutte, chi più chi meno, ambiamo. Il nero sta bene alle more, alle bionde, alle rosse, a quelle che hanno i capelli indefiniti, persino a quelle con la carnagione pallida come gli zombies, chè, dopotutto, ci sta nel personaggio e crea pure quell’effetto scary movie che non guasta mai. Il fratello più chiaro del nero, che qui chiameremo grigio topo, invece, comincia ad essere un problema. Il grigio, credetemi, sta bene alle fighe di Parigi e basta. Se la mattina, quando ti alzi e ti guardi nello specchio, la prima parola che ti viene in mente è AH PERO’, pronunciata con connotazione positiva eh, allora stai sicura che potrai uscire anche vestita da ratto che nessuno se ne avrà a male. Ma, e questo ma è bello grosso, se quando ti alzi, la mattina, ti guardi allo specchio e quello che vedi non ti piace più di tanto e per riuscire ad essere un tantino presentabile ti occorrono almeno quindici minuti di maquillage, ecco, allora, ascolta me che stai serena, cambia subito idea e non indossare il griggio pantegana. Personalmente indosso il grigio quasi esclusivamente come tenuta da casa, tipo maglietta di Tezenis sdrucita ai bordi e risalente al 1979, oppure, maglioncino consunto dei tardi anni ’90 che, in occasione di una sortita sul balcone a fumare una sigaretta fa sempre comodo perchè tiene un gran caldo. Il cugino di primo grado del nero è il conturbante blu e, lasciatemi fare una precisazione d’obbligo, stiamo parlando di un bel blu navy scuro e non di quei blu elettrici che andavano quando cantavano i Roxette e poi, Dio grazie, sono stati relegati ai negozi di fuffa dove vendono solo roba sintetica. Il blu, difficile da abbinare ma non troppo, troppo spesso destinato a periodi primaverili, ha invece un grande effetto anche d’inverno, abbinato anche ad un bel marrone, ad un jeans, e, perchè no, persino al cugino nero che, si sa, si abbina anche alle cotolette impanate. Per parecchi anni ho diffidato da questa tinta, convinta che il nero mi si addicesse di più anche perchè più facile da gestire, ultimamente, anche se ancora non così frequentemente, ci provo a mettermi qualcosa di blu e devo dire che non sono proprio da buttare nel cesso. Abbiamo poc’anzi accennato ad un colore che, nelle sue accezioni negative potrebbe diventare una arma a doppio taglio ma, se utilizzato con parsimonia e un tantino di furbizia, può regalare effetti di insperata eleganza retrò: il marrone. Sia chiaro, per l’amore del cielo, che non si pensi al marrone slavato dei pigiami dei nonni o, ancor peggio, al marrone scuro dei maglioni infeltriti delle sciure che puliscono il marmo dei loculi al cimitero eh, vade retro, parliamo di un bel marrone carico di quel pizzico di serietà che si deve cercare in un colore che, con il suo calore, può essere tranquillamente sfruttato sia nei mesi freddi che in quelli caldi. Un vestito marrone e un paio di sandali alla schiava sono il top del top sull’abbronzatura. Blu e marrone: abbinamento straordinario, basta avere il coraggio di metterli insieme senza sembrare un divano letto. Vorrei evitare come la peste il capitolo beige, unicamente perchè, ne ho la certezza, quando indosso qualsivoglia abito beige, sembra che io abbia appena vomitato il pranzo, la colazione e anche un pochino di bile. Lasciamo perdere. Sta molto bene alle fighe di Parigi però, cappotto cammello consigliato a chiunque si senta la figaggine addosso. Per conto mio, punto su un evergreen nero ed evito l’effetto Biochetasi. Passiamo al verde e ricordiamo un detto che recita più o meno così: chi di verde si veste, di sua beltà è sicuro. Ecco, parliamone, c’è parecchia gente che si veste di verde e, purtroppo, somiglia in modo inquietante ad un aiutante di Babbo Natale. Bisogna usare alcune accortezze che non guastano mai, ovvero: mai abbinare il verde al rosso per evitare di sembrare uno gnomo da giardino. Mai abbinare il verde all’arancione, anche se consigliatissimo da non so chi, si finisce per essere scambiati per un flacone di detersivo dei piatti e non è piacevole. Il verde è un colore meraviglioso, sta bene alle bionde, alle rosse sta da dio e alle castane dipende da che faccia hai. Se sei una figa di Parigi vai tranquilla che ti sta bene pure il verde ramarro. Io vesto raramente di verde e, quando mi capita, preferisco un verde scuro, tipo abete, smeraldo, o come diavolo si chiama (da piccola li sapevo tutti perchè avevo i Caran D’ache, poi sono diventata povera e ho perso dimestichezza con le sfumature), avendo gli occhi tendendi al verde, checchè se ne dica, devo dire che non mi sta così male. Tralascerei nuance tipo turchese, tiffany e quelle robe lì perchè sinceramente a parte per bomboniere, contenitori di urine e accessori della Barbie, non riesco ad accostarmi a questi colori se non in piena estate, momento in cui si può osare un pò tutto perchè la figaggine è con noi più che in inverno e l’abbronzatura e la spavalderia del caldo ci fa sembrare tutti più belli e arditi. Di simile tipologia ma di altro genere a livello di abbinamento è il rosa. Abbiamo svariati tipi di rosa, si passa dal rosa Big Bubble, al nude, al rosa antico, che ritengo stia bene solo a pochissimi eletti, per finire al fucsia che nonostante a volte mi capiti di utilizzare, ritengo mi stia davvero di merda e pertanto evito più possibile. Il rosa chiaro si può azzardare anche se non ti senti Sandy di Grease, magari senza esagerare con gli accostamenti e utilizzando un rossetto chiaro e non esageratamente acceso per scongiurare l’effetto marshmallow. Il nude è il classico colore della borghesia e, appena te lo metti addosso ti senti automaticamente molto Jackie Kennedy, tanto che ti viene quasi da infilarti un cappellino con veletta e salutare come i reali inglesi. Il gemello diverso del rosa è il rosso, colore difficile da sfoggiare senza finire irrimediabilmente per apparire zoccoleggianti o pericolosamente sciatti. Da evitare le sfumature carminio e affini, cappucci e mantelline. Diffido dal rosso, rossetto a parte, che uso come accessorio di bellezza per sentirmi meno cessa, ma, se proprio mi capita di infilarmi qualcosa di questo colore, devo dire che ho subito la sensazione che danno le giornate soleggiate e ventose, un bel pizzico di brio che ogni tanto fa bene provare. Facente parte della tavolozza dei primari ecco l’esuberante giallo che consiglio esclusivamente d’estate o, laddove regni incontrastata una figaggine paurosa. Titti è fighissimo ma è un cartone animato, stiamone lontani, almeno quando il colorito è ancora tendente al verde rame. L’ocra, cugino del giallo e fratello del beige, è tornato a far parte dei colori di gran moda quest’anno, nelle sue svariate sfumature di senape e color uovo marcio è un colore a cui non posso accostarmi, per lo stesso motivo per cui aborro il beige. C’è chi sta benissimo, tipo la mia amica L., ma sono casi più unici che rari, credetemi. Ultimo, perlomeno in questa disquisizione, il meraviglioso e soave bianco che dona a tutti e sta di merda a chiunque, a seconda del lato da cui si guardano le cose. Vestirsi di bianco è una grande sfida, con sè stessi e con il mondo, azzardare un outfit da gelataio che possa rendere speciali quanto Angelina Jolie è una missione che, almeno una volta nella vita, occorre affrontare. Qualche mese fa ci ho provato e a tratti la figaggine si impossessava di me, perlomeno all’interno, in altri momenti invece avevo il timore di incontrare un sacerdote che mi volesse infilare in bocca un’ostia in occasione della mia comunione. Lo indosso d’estate, quando sono abbronzata e anche se sono struccata non somiglio a Nosferatu. In quel caso mi ci sento anche bene, anche in total white. D’inverno, invece, è preferibile un capo alla volta e una seduta di make up mattutina di almeno dieci minuti (occhio al fondo tinta che macchia).

Insomma, eccoci qui, a sfoggiare spesso e volentieri un colore non colore che ci fa sentire bene e ad evitare come la scabbia sfumature che magari ci renderebbero affascinanti e luminose. La mia amica A., spero molto presto, mi fornirà la palette che più si addice al mio incarnato, capelli, occhi e tutta quella serie di robe che non so cosa siano ma che fanno un insieme di caratteristiche che definiscono la tua tipologia e i colori che ti stanno sicuramente bene. Spero vivamente che il beige non sia tra questi, altrimenti preparatevi alla faccia da vomito.

Un tempo speciale che profuma di vento

A volte mi domando perchè non mi sbatta per fare un lavoro che mi piaccia di più, che mi soddisfi di più, che mi dia quel quid di cui avrei bisogno per essere davvero felice, del tutto. Ci sono giorni in cui questo pensiero diventa insistente e, a dirla tutta, mi sento sprecata, a fare quello che faccio, senza peccare di vanità, ma so bene di valere qualcosa in più e di poter fare qualcosa in più. Ma poi, in uno dei pomeriggi in cui scarrozzo i Puffi di qui e di lì ed ho la possibilità di passare del tempo con loro, mi torna alla mente il perchè. Perchè quando passeggio con PuffoPiccolo, chiacchierando con lui, un pò come fanno i grandi e un pò come fanno una mamma con il suo bambino, che bambino non è più, sento davvero il cuore che si riempie, di quel tempo di qualità che non baratterei con nient’altro. Passeggiare, fianco a fianco e parlare, fare discorsi complicati e chiacchiere anche inutili, con il vento che profuma di bello e il cielo che diventa scuro, è un’emozione che non ha pari. Sarò sentimentale, poco ambiziosa, sarò una tipica mamma chioccia mediterranea che fatica a staccarsi dal nido, ma quella sensazione lì, di confidenza e amore incondizionato, a me fa stare così bene che ogni sogno, ogni velleità, passa in secondo piano e sfuma, come sfumano le vecchie fotografie, lasciate a prendere polvere nelle scatole, in soffitta.

Quando sarò grande, mi ha detto stasera, mentre aspettavamo PuffoMedio con le quattro freccie abbarbicati in un parcheggio altamente abusivo, quando sarò grande, se sarò ricchissimo, ti comprerò una villa enorme, proprio vicina alla mia, con quattro maggiordomi, così non dovrai più sistemare niente e nemmeno cucinare, magari solo quando ne hai voglia ma senza essere obbligata a farlo sempre. Le case saranno grandi come due quarti del Parco di Monza, tutto il resto un giardino grandissimo, avrò quattro lupi, quattro orsi e una piscina per me e per i delfini, nella mia casa, ha continuato, ci sarà anche un campo da basket, un cinema e una sala dei videogiochi arcade, una cabina armadio enorme divisa in due parti, una per i vestiti e le scarpe e l’altra per tutte le divise da basket. Il sogno ad occhi aperti è continuato con mirabolanti desideri, alcuni possibili, altri decisamente utopistici, non è questo l’importante, l’importante è che in quel tempo, passato insieme, ci fossimo noi due e tutto quello che avevamo voglia di raccontarci. Un tempo speciale che vale più di una casa enorme, di una piscina con i delfini e persino di quattro maggiordomi. Un tempo speciale che mi rende felice, che riempie gli spazi vuoti dei desideri disattesi e che profuma di vento.

Proprio io e solo io

Imparare a conoscersi e a mostrarsi per quello che si è davvero è un’arte, una sfida, una missione pressochè impossibile. Mille anni fa non avevo paura di nulla, è vero, erano mille anni fa e io di anni ne avevo davvero pochi, ma la vita era semplice e sembrava che niente potesse scalfirla. Ero io, proprio io, sempre e comunque, da mattina a sera, con chiunque mi trovassi davanti. Ero puramente me stessa senza fronzoli, paletti, mancanze, senza lati da oscurare per paura di non essere apprezzata, senza la folle paura che tutto potesse cambiare. Poi la vita ce la mette tutta per farti capire che non gira proprio tutto come credevi, pensavi, speravi. E ti ritrovi a fare i conti con tutta una serie di paure, blocchi emotivi, timori, che nemmeno immaginavi potessero esistere. Sei lì, spavaldo e invincibile e un attimo dopo, la terra trema sotto i tuoi piedi e ti fa capire chiaramente che sei una nullità e che non hai potere decisionale nemmeno sul colore di calzini che indosserai il giorno seguente. Credi di essere il centro del mondo, del tuo mondo, perlomeno, ma se non urli non ti si sente, se non canti, non si girano a guardarti, se la notte tremi, non c’è nessuno che ti possa confortare. Allora capisci che sei sola in un mondo pieno di gente e decidi che le strade sono due: o soccombi e continui a tremare, perdendoti tutto il bello che c’è, o fai un bel sospirone e ricominci a cantare, a volte anche a sproposito, l’importante è cantare. Non è che funzioni proprio sempre eh, ci sono mattine in cui hai voglia a cantare, potresti anche intonare tutte le canzoni dalla prima all’ultima senza dimenticarne nemmeno una, ma col cazzo che ingrani la marcia giusta. E a quel punto che si fa? Indossi un bel vestito, che non è bello perchè è bello, ma è bello perchè ti fa sentire bene, e ti appiccichi sulla faccia il tuo migliore sorriso e sfidi chiunque a dire che dietro a quel sorriso possa esserci dell’altro. Il segreto sta lì, nel sorriso. Non importa se hai una faccia da schiaffi o il viso più bello del mondo, perchè il segreto sta in quel sorriso. Dietro ai denti, alle labbra, c’è un mondo di complicazioni che nemmeno si può immaginare. C’è il bisogno di sentirsi amati, c’è l’autostima che va in altalena, c’è l’insicurezza di chi la terra sotto i piedi l’ha sentita tremare troppo presto e troppe volte, c’è un pezzettino che manca, c’è la paura di stare male, di morire, di scomparire, di non essere mai quello che vorresti, di perdersi qualche altro pezzo, c’è una mente che gira, un cuore che a volte vorrebbe battere da un’altra parte, almeno per un giorno, c’è la risata più grassa del mondo, c’è un vaffanculo grande come un macigno, che pesa e sta lì, ci sono parole che non possono uscire e altre che non devono uscire, ci sono compleanni passati, regali mai pervenuti e desideri inespressi. C’è una persona diversa da quella che gli altri vedono, c’è una ballerina, una maestra, una punkabbestia, una scrittrice, una pagliaccia, una pazza che a volte vorrebbe mollare tutto e scappare per qualche giorno, non perchè quello che ha non le piaccia, ma semplicemente perchè lei è anche più e altro e dirlo sembra sbagliato ma non lo è. Ci sono così tanti noi ,in noi, che se li mostrassimo tutti la popolazione duplicherebbe e sarebbe davvero un casino e non ci staremmo più su questa pazza terra incasinata. E allora forse è meglio infilare un pò di noi nel solito cassetto delle cose non dette e non fatte, indossare quel bel sorriso che tutto può e fottere il mondo e anche un pò noi stessi dopotutto, fingendo ogni tanto di essere quel che non siamo, o meglio, essendo qualcosa in meno di quello che siamo, che è peggio, come diceva saggiamente Quattrocchi.

Oggi camminavo da sola in un tristerrimo centro commerciale e pensavo che in quel momento lì ero proprio io quella che vedevo riflessa nelle vetrine, con tutto il brutto e il bello che ci può essere dentro di me. Camminavo e sorridevo, da sola come una cretina, pensando a quei dieci minuti in cui ero proprio io e solo io, e domandomi come mai non lo riesca a fare più spesso.

monotematica

Non vorrei diventare monotematica e noiosa, ma in questi giorni, questa esperienza canina mi sta facendo davvero sbarellare. Innanzitutto sono entrata a piè pari nella categoria dei padroni di animali che parlano come in un cartone animato della Disney. Secondariamente mi sembra di rivivere i tempi in cui i Puffi erano molto piccoli. Esco di casa e vorrei tornare a casa, torno a casa e non vorrei più fare nulla se non starmene seduta di fianco a lei a farle le coccole. Questa mattina, prima giornata in cui avrebbe dovuto stare in casa qualche ora senza di noi, mi sono svegliata alle sei per essere pronta e reattiva al momento del distacco, l’ho portata fuori venti minuti sotto una pioggerellina inutile e fastidiosa che mi ha conciato i capelli come il pelo di un cocker, ma, se devo essere sincera, poco me ne importava, io, proprio io che la pioggia la odio più di qualsiasi altra cosa. Le ho preparato un giochino che avrebbe dovuto intrattenerla durante la prima mezz’ora di abbandono, le ho lasciata accesa la radio e la luce del soggiorno. L’ho salutata, svariate volte, pur avendo ricevuto dall’esperto amico A. precise istruzioni di comportarmi esattamente all’inverso. L’ho salutata la prima volta e non mi ha cagata di pezza, impegnata a cercare di estrapolare un biscotto dal suddetto giochino, l’ho salutata una seconda volta nel caso la prima volta non mi avesse sentita e, in ultimo, con la testa infilata tra la porta e la parete e un piede in bilico sullo scalino, l’ho salutata sussurrando un’altra volta, si sa mai che proprio in quel momento il gioco non le interessasse più e volesse girarsi dalla mia parte. Vivo una quarta maternità, con la differenza che le prime tre sono state leggermente più dolorose, almeno nella pratica di espulsione del marmocchio, e che in questo caso il figlio in questione ha quattro zampe, due occhi che parlano ed è pelosa. C’è un’altra nota positiva nell’avere un figlio peloso: portarlo fuori a fare la passeggiata conciata da sbattere via che nemmeno nei miei peggiori incubi e fregarmene altamente dell’outfit e dell’abbinamento vestiti/scarpe, chè, se porti fuori il cane e fai la figa di Parigi col tacco e similare oltre a slogarti una caviglia e smagliarti i collant, fai anche un pò ridere. A., detta amorevolemente Neni, ha capito che sono la sua “mamma” senza pelo (che poi un pò di pelo ce l’ho anch’io ma cerco di tenerlo sotto controllo), ha capito che adoro quando mi fa le coccole e un pò meno quando non riesco a fare più di due posizioni yoga perchè nel giro di tre minuti prende possesso del mio tappetino e inizia a leccarmi i piedi. Ha capito che la regina della casa sono io e che la pappa, alla vista della quale sembra abbia fumato del crack, viene quasi esclusivamente dalla Sottoscritta. Ha capito che vado in brodo di giuggiole quando mi guarda come fossi l’ottava meraviglia del mondo e ha capito, soprattutto, che ha finalmente trovato la sua casa speciale.

Ok, ok, mi sono rincoglionita del tutto, lo ammetto. Ma con quel muso davanti, sfido chiunque a non perdercisi dentro.

A volte basta solo quello

Anni di duro lavoro, di opera di convincimento, di litigi e musi lunghi, di recriminazioni, di discussioni accese, soprattutto all’ora di pranzo e cena, giusto per digerire bene il boccone amaro della frustrazione. Anni di “ti preghiamo”, di “saremo bravissimi”, di “ce ne occuperemo noi” che non portavano mai a nulla, se non ad ulteriori malumori, da parte di tutti, sia di chi metteva un veto assoluto, sia di chi non vedeva alcun motivo perchè quel veto fosse sempre e solo così assoluto. Promesse disattese, illusioni sfumate. E poi basta un attimo, o meglio, basta dire “abbiamo deciso, prendiamo un gattino”, quattro contro uno, un pò come i moschettieri, un pò come i cavalieri dell’apocalisse, che giunti ad una certa non si fermano più di fronte a nulla, pur avendo dovuto ripiegare su un’alternativa che non portasse alla imperitura disfatta. Basta anche solo l’idea di merdine dall’olezzo poco piacevole, abbandonate come doni all’altare in mezzo a sabbiette agglomeranti e non, e il gioco è fatto. Così, tra il lusco e il brusco, un sabato mattina di qualche settimana fa, si palesa un miraggio per anni agognato. Basta, poi, un giro tra occhietti scuri e tristissimi, per convincere, senza alcun ripensamento, che un veto decennale fosse in realtà una minchiata galattica. Giorni di attesa, fango e freddo, palline come piovesse, cacche schiacciate sotto le scarpe, corse sfrenate, occhi negli occhi a cercare carezze e imparare a conoscersi, almeno un pochino, piano piano. Sembrava non dovesse mai arrivare, il giorno fatidico, sembrava sempre fosse il giorno seguente e quello dopo ancora. Sembrava fosse un pensiero troppo grande, un sogno da conservare nel cassetto delle illusioni. E invece. E invece eccoci qui, con una quattro zampe che ci guarda come fossimo la cosa più bella al mondo, eccoci qui, a fare la gymcana in cucina per paura di pestare una zampa. Una zampa. Ma chi l’avrebbe mai detto ? A. detta amorevolemente Neni, è sdraiata sul tappeto della cucina e sembra non essere mai stata da nessun’altra parte. E’ salita nella bat mobile senza battere ciglio, ha gironzolato nel negozio degli accessori per animali con PuffoMedio che la inondava di parole, ha abbaiato ad un cane microscopico, ha abbaiato ad un cesto colmo di palline, forse per ricordarci di esserne una grande appassionata, è risalita in macchina nemmeno l’avesse fatto altre mille volte, si è sdraiata, sospirando rumorosamente. Ha salutato i “cugini” E., T. e N., si è gustata le coccole dello Zio M. e ha annusato la Zia C., già conscia di non potersi spingere troppo in là. E’ risalita in macchina, per la terza volta, membro ufficiale dell’equipaggio Arrivata a casa ha annusato, qui e lì, ha preso dentro in ogni sedia, muro, lampada, scalino, con quel collare fastidiosissimo soprannominato Il collare della vergogna. Ha guardato tutti, con quell’aria tra lo spaurito e l’adorante che ti fa venire voglia di sdraiarti accanto a lei e non alzarti più. Mi segue, un’ombra nera a un passo dalle mie gambe, già consapevole che la Sottoscritta è la dispensatrice ufficiale di ogni genere di leccornia. Ha inciampato nelle scale, ha deciso che per ora non sono fatte per lei, ha dormito tutta la notte e al risveglio ha saltellato alla mia vista, amorevole come il più romantico dei fidanzati. E’ nostra, è mia, e ancora non mi sembra possa essere vero. Venti chili di amore puro, di gratitudine, di agognata soddisfazione, venti chili di pelo e carne che non aspettavano altro che trovare un posto sicuro, giusto, sereno. Sembra essere sempre stata qui, sembra nata e cresciuta nella squinternta casa in cui ora si aggira alla ricerca di una carezza, di una coccola. A dimostrazione che l’amore è infinito e che a volte, basta solo quello.

Canta che ti passa

Quando ero una ragazzina, come penso la stragrande maggioranza degli adolescenti/giovinastri, mi svegliavo con un’incazzatura ardente così accesa da rendere impossibile rivolgermi la parola, fatta eccezione, ovviamente, per mia madre che, nonostante i miei sguardi d’odio continuava imperterrita a discorrere amabilmente con una fronte e degli occhi chiusi senza ricevere alcun genere di risposta se non deboli e frustrati grugniti. Ora, ovvero, da qualche anno a questa parte, la genitorialità ha portato con sè una buona dose di pazienza mattutina e, volente o nolente, ha scardinato quell’odio atavico nei confronti del genere umano che mi spingeva a digrignare i denti nell’attesa che, chi avevo davanti, scomparisse come una mummia alla quale hanno tolto le bende millenarie. Da madre italiana quale sono, pur potendo puntare la sveglia ben oltre le sette del mattino, tendo coraggiosamente a svegliarmi alle sei e mezza per poter fare compagnia ai Puffi mentre fanno colazione e si preparano per andare a scuola. Il malumore del risveglio che da ragazzina la faceva da padrone, ha lasciato il posto ad un’andatura perlopiù ciondolante, capelli improbabili, occhiaie da panda minore e una favella che non ha nulla a che vedere con la mia tipica logorrea. Dotata di questi attributi e di un buonumore che tuttavia non sprizza da alcun poro ma se ne sta lì, in attesa che le sinapsi si riattivino del tutto, tendenzialmente lascio ad ognuno dei Puffi la autonoma gestione dell’umore, senza rompere i coglioni con parole inutili o prospetti dettagliati di attività giornaliere o, ancor peggio, planning alimentari per la cena. Insomma, mi faccio i cazzi miei e cerco di volare bassa senza interferire nel loro mood mattutino. Ad una certa, dopo aver ricordato a tutti di lavarsi i denti, di rifare il proprio letto, di chiudere le finestre delle camere, di prendere eventuali merende, soldi, moduli firmati ecc. ecc., saluto uno ad uno i tre caballeros in pellegrinaggio nel bagno dove mi sto dando un contegno per evitare di essere arrestata una volta uscita di casa e, con sommo piacere, resto sola per almeno una mezz’ora. A quel punto metto la musica a palla sul cellulare, finalmente libera di spaziare da Mia Martini a Diodato, dagli Extreme a Tha Supreme, da Amy Winehouse alla colonna sonora di Glee, senza essere cazziata, giudicata, deprezzata e soprattutto senza sentire commenti del tipo: ma che musica èèèèèèè??? ma che schifo ascolti? bella questa! metti questa!!

Mi trucco, mi vesto, rassetto casa, raccatto merdacce sparse ovunque, laddove merdacce sono oggetti di svariato genere lasciati ovunque in giro, stendo, programma la lavatrice, rifaccio il letto, svuoto la lavastoviglie, e tutta quella serie di cose pallose che, pur essendo noiose sembrano quasi una passeggiata di piacere se fatte canticchiando e svolazzando di stanza in stanza, in modalità Cenerentola brianzola.

Una volta finito tutto, pronta per tuffarmi nell’attuale traffico metropolitano del paesello, preda di ingorghi che nemmeno Manhattan all’ora di punta, inforco la Pandina di NonnaVolante o la Bat Mobile (che ora sembra una Bat mobile al confronto della Pandina ma è una ordinarissima Toyota sa il cavolo cos’altro) e me ne vado al lavoro, continuando a canticchiare, questa volta ascoltando la radio.

Questo, quando tutto va come deve andare.

Cerco sempre di Pollyannare le mie giornate, se possibile, ma quando come questa mattina, una volta chiusa la portiera della Pandina, ti accorgi, al quarto tentativo di accensione che forse la sera prima avevi lasciato le luci accese, il buonumore comincia lievemente a vacillare, ma non demordi ed esci dalla macchina, la chiudi, entri nuovamente in casa, scambi le chiavi della Pandina con le chiavi della Bat Mobile, attraversi il cortile e mentre sali sulla Bat Mobile ti rendi conto che il vetro anteriore o come diavolo si chiama, è completamente ibernato, nemmeno fosse passata Elsa a fare uno dei suoi giochini del cavolo, Allora, infreddolita ma sempre sorridente, accendi la macchina e spari il riscaldamento a trenta gradi, e attendi che il vetro si sghiacci in autonomia chè, di grattare non ne hai la benchè minima voglia. Stai lì due minuti, seduta su un sedile che a contatto con le tue gambe avvolte dai collant, sembra un calippo alla coca cola, aspetti un altro minuto e ti dici che forse è meglio cominciare a muoversi. Con un vetro smerigliato visibilità meno deici, ti dirigi verso il cancello e tiri giù il finestrino per permettere al telecomando di prendere meglio il segnale, ma non funziona: una, due, tre, quattro, cinque volte…schiacci come se da quel pulsante dipendesse l’intero destino del mondo, ma nulla. Allora esci dalla macchina, sgambetti verso la porta di casa, la apri, entri, prendi le chiavi della Pandina, apri la Pandina, infili metà del tuo corpo ormai congelato all’interno dell’abitacolo, prelevi l’altro telecomando, chiudi la macchina, rimetti a posto le chiavi in casa, il tutto parlando da sola e imprecando come un pirata e pensando che ti è parso di vedere il tuo buonumore rifugiarsi nella Pandina mentre cercavi il telecomando pochi secondi prima. Torni alla Bat Mobile, rischiando di spaccarti l’osso del collo dato che indossi delle scarpe suicide che scivolano e con le quali ogni volta è un terno al lotto. Entri e ti siedi, nel frattempo la Bat Mobile ha sghiacciato in autonomia il parabrezza (ecco come si chiama), schiacci fiduciosa il tastino del telecomando estrapolato dalla Pandina che, Dio grazie, funziona. Le porte del mondo (il cancello), si aprono ai tuoi piedi (scivolosi) e al tuo umore che, a quel punto, con tutto quel via vai, decisamente arranca, ma tu continui a canticchiare, passando da Diodato agli ACDC, giusto per ridarti la carica necessaria. Con in testa un paio di OM yogici e consolanti, arrivi al lavoro e ti sovviene un dubbio: hai chiuso la porta di casa nel trambusto del fuori e dentro?

Pollyanna è lontana anni luce, povera gioia, al suo posto ha lasciato una versione di me molto simile a Ozzy Osbourne, ma continuo imperterrita a canticchiare, mica si dice CANTA CHE TI PASSA ?

C’è sempre un pezzettino che manca..

Tra qualche giorno farà il suo ingresso nella nostra squinternata famiglia un membro aggiuntivo. Sinceramente mi sento un pò come quando stai per partire per le vacanze, quando aspetti una festa a sorpresa, un regalo inaspettato, un amico che non vedi da così tanto tempo che la sola idea ti riempie di gioia e ansia, in un’unica soluzione. Con la mente torno ai miei quattordici anni, ad un’estate non piacevole, ad una me che sembra essere stata rapita dagli alieni e che, invece, è ancora tanto, troppo, dentro di me. Con la mente torno a mia madre e all’emozione, all’eccitazione, alla gioia, da lei provata nel vedermi piangere davanti al quattro zampe più bruttino e scalcinato del mondo, il mio, in quel lontanissimo giorno d’autunno. E così, una cosa bella, un’emozione grande che aspetto da settimane con una crescente meravigliosa ansia, inevitabilmente porta con sè il sapore dolce amaro delle cose non fatte, non viste, non vissute. Ho potuto godere della compagnia di un cane dolcissimo proprio perchè prima del suo arrivo, per anni evitato come la peste, tu avevi deciso di prendere e andartene, così, senza nemmeno salutare. Quel cane con la masticazione inversa e l’alito da drago doveva essere anche tuo, ma le cose non sempre vanno come le avevamo pensate, volute, attese. Qualche settimana fa, al canile, al mio fianco c’eri anche tu e i miei occhi erano i tuoi. Hai guardato quel muso nero e quegli occhi scuri pieni di una vivacità che spero riusciremo a contenere, e dentro di me hai detto: E’ LEI. E ti abbiamo ascoltata. Ora, ad aspettare il muso nero di quella bestiolina che ci farà impazzire e innamorare, con me ci sei un pochino anche tu, che amavi gli animali più degli umani e che sapevi leggergli dentro qualcosa che io ho imparato a capire molto più tardi. E come sempre, quando succede o deve succedere qualcosa di bello, qualcosa che mi regala una gioia simile ad un giro in giostra a Gardaland, c’è sempre un pezzettino che manca e che mancherà sempre, quel pezzettino del puzzle che sei tu e che non c’è modo di riempire. Faccio spallucce e penso che potrò parlarle di te e di come guardavi gli animali, con gli occhi grandi di chi ama in modo puro e così spera di essere amato. A. ha gli occhi scuri, la coda dritta ed è caricata a molla, come me, quando bevo la tisana allo zenzero. Se fossi qui, sabato verresti con noi a prenderla al canile, o forse accompagneresti PuffoPiccolo alla partita di basket e poi me lo riporteresti a casa per fermarti a cena e conoscere finalmente la bestiolina, mangiare insieme una pizza e vedere come si comporta appena arrivata a casa. Perchè le sorelle fanno così no?

C’è sempre un pezzettino che manca e non ci posso fare proprio niente…ma ci sono giorni in cui la mancanza di quel pezzettino sembra una cosa da nulla e giorni in cui…ti pare proprio che il mondo non sia al posto giusto…ma a raccontarlo sembra che ci si stia autocommiserando e allora meglio tirare dritto e canticchiare una canzone…

C’è sempre un pezzettino che manca…anche se nessuno, guardandoti, se ne accorge.

la mente vuota crea dipendenza

sento tanto parla, oggi, delle infelici parole pronunciate da un vip, ieri, in occasione di non so quale presentazione di coloro che faranno parte dell’entourage dell’ormai ammuffito, a parer mio, Festival della canzone italiana (se possibile pronunziate la parola Festival accentando la I alla maniera delle nonne, che un pò vintage e un pò trash).

dicevo… su tutti i social, i giornali, si legge e si sente, oggi, di come siano sprecati i commenti sessisti in un contesto popolare che, dovrebbe, essere sulle bocche di tutti, sì, ma positivamente, ovvero foriero di messaggi non necessariamente acculturali ma, indubbiamente, progressisti e, ripeto, positivi.

Non sto a discutere sul chi, il come e il perchè, ma mi soffermo a pensare a come sia facile partire da una gaffe per fare un pieno di pubblicità che, porterà al Festival di cui sopra, un’audience ancora più alta di quella che già, inspiegabilmente a parer mio, si porta a casa da secoli e secoli.

La tristezza, secondo me, non è tanto che si sia disquisito grossolanamente di ruoli femminili decisamente demodè che nemmeno mia nonna, ma quanto che, se ne faccia un così grosso parlare, anzichè attribuirgli l’importanza che realmente dovrebbe rivestire nel mondo odierno e nella società attuale, ovvero ZERO.

Che un presentatore dell’Italietta dei vestiti luccicanti e delle soubrette senza voce, abbia il potere, ancor oggi, di far così tanto parlare di sè, apparendo più importante e sensazionale di notizie che dovrebbero fare accapponare la pelle, questa è la vera tristezza, quella che dovrebbe riempire il cuore di amarezza.

Una giornata intera sprecata a rendere “omaggio” ad un commento infelice e meschino, a me sembra davvero uno schiaffo in faccia ad un mondo che nemmeno dovrebbe starli ad ascoltare, quelli che ancora la pensano così. Perchè parlare tanto di chi, ancora, nel 2020, crede che le donne debbano camminare un passo indietro rispetto ai loro uomini ? ma non l’abbiamo ancora capita che più se ne parla, di soggetti simili, e più facciamo il loro gioco ? ma non l’abbiamo ancora capito che quest’anno il Festival parte così non per errore ma per una sottile macchinazione di cui siamo, noi talponi dei social, i destinatari favoriti ?

Ma non abbiamo proprio niente di più sensazionale a cui pensare ? Non è certo un pennellone nasone a doverci far imbestialire così tanto, e parlo da donna che è ben consapevole di non essere da meno di nessun uomo che sia figo, ricco o chissà cos’altro ancora. Eleviamoci un attimino dai, non permettiamo all’Italietta dei fiori e dei luoghi comuni di fare così tanto scalpore. Preoccupiamoci delle donne senza lavoro o sole al mondo, di quelle che subiscono in silenzio, o di quelle che non possono rispondere a gente come il presentatore perchè rischiano di tornarsene a casa con un livido. Il pennellone non fa la differenza dai, siamo noi che la dobbiamo fare ‘sta differenza, evitando di fare diventare una gaffe ignorante l’ennesimo strumento pubblicitario milionario.

Magari potremmo farla una cosa carina per combattere la mediocrità, la sera, anzichè guardare i programmi trash che ci propinano, apriamo un libro e mettiamoci a leggere, chè la mente vuota crea una dipendenza da ignoranza terrificante.

la questione quattro zampe

Qualche anno fa, la Sottoscritta e GrandePuffo acquisirono, da un’amica che per ragioni di sovraffollamento non se ne poteva più occupare, due gatti persiani di rara bellezza. La Sottoscritta, proveniente da una famiglia di dimensioni ridotte che, nel tempo, aveva aumentato il numero di componenti grazie all’adozione di gatti e cani, era abituata ad avere animali in casa, GrandePuffo, proveniente da una famiglia numerosa che per anni aveva avuto un cagnolino micro ed isterico (questo è quanto dai racconti di GrandePuffo), non aveva visto di buon occhio l’ingresso di ben due felini nel nostro nucleo famigliare ancora esiguo. I gatti, consapevoli dell’avversione dimostrata da GrandePuffo, lo avevano eletto quale membro favorito della famiglia, snobbando senza ritegno la Sottoscritta e piazzandosi, in ogni momento e ad ogni occasioni, letteralmente sotto il naso di colui che, risaputamente e palesemente, li schifava senza preoccuparsi minimamente di mascherarlo. Per non ricordo quali ragioni i due felini, ad una certa, non hanno più fatto parte dell’allora piccola squinternata famiglia e gli equilibri erano rientrati nei range di normalità ed umanità esclusiva tanto amati da GrandePuffo. Qualche anno dopo la Sottoscritta ci aveva riprovato, sempre in condizioni di non figliolanza, e un cane dalle enormi dimensioni, millantato come labrador ed in realtà maremmano, aveva fatto il suo ingresso nella nostra nuovissima e luccicante casetta. Per evitare discussioni e tutta una serie di TE L’AVEVO DETTO, la Sottoscritta, in pausa pranzo, correva a casa come una psicopatica a sistemare tutti i disastri provocati dalla bestia bianca e, la sera, mentiva spudoratamente ad un GrandePuffo dallo sguardo truce, affermando che il cane era stato bravissimo. All’ennesimo danno che la Sottoscritta non era riuscita ad occultare, GrandePuffo aveva deciso delle sorti della bestia senza consultare la Sottoscritta, destinando, la belva, a terzi. A figliolanza completa, quindi all’incirca cinque anni dopo l’episodio del cavallo dalle sembianze di cane, o viceversa, la squinternata famiglia, ha deciso di accogliere tra le fila del nucleo già abbastanza cospicuo, un animale amato soprattutto dalla Sottoscritta: un basset hound di mille chili dall’odore discutibile di nome Zaccaria. Per una serie di sfortunati eventi, la famiglia, al completo, munita di cane, aveva fatto ritorno dalla montagna a casa, un viaggio di all’incirca tre ore, con Zac sdraiato sotto i piedi dei bambini che, all’epoca, ancora ciondolavano teneramente e quindi non intaccavano lo spazio vitale dell’animale. L’abitacolo, invaso dalla puzza nauseabonda del quadrupede, era diventato una sorta di camera iperbarica nella quale, PuffoPiccolo, che all’epoca era lievemente allergico al pelo del cane, aveva sofferto le pene dell’inferno. Parentesi: PuffoPiccolo, dalla nascita ai sei anni, ha avuto problemi di ogni sorta relativi ad intolleranze ed allergie che gli causavano bronchiti asmatiche “mortali” grazie alle quali per due anni ha assunto antibiotici ogni due settimane e fischiato come un trenino a vapore. Nell’era di Zac la questione dell’allergia al cane era ancora del tutto sconosciuta e il fischio prodotto dai suoi polmoni ogni volta che il cane si trovava nelle sue vicinanze era per noi solo uno degli ennesimi sintomi dei suoi disturbi e della sua “malattia”. Zac era un amore, il cane ideale, dolcissimo, ubbidiente, docile, giocherellone, fatto salvo per il problema delle orecchie penzolanti, ricettacolo di ogni genere di luridume. Per farla breve, spinti dalla pediatra e da un periodo di aerosol ed amoxicillina da fare invidia ad un tisico, abbiamo dovuto, nostro malgrado e a malincuore, espellere Zac dalla nostra vita. La questione cane è stata più volte affrontata, ripetutamente richiesto come regalo di compleanni, cerimonie religiose, ricorrenze importanti, è diventata il leit motiv di ogni conversazione a pranzo e a cena sino a che, un bel giorno, GrandePuffo ha promesso all’intera famiglia, che, una volta raggiunto il traguardo delle scuole medie per tutti e tre i Puffi, avremmo potuto realizzare il loro sogno. In prossimità del traguardo, ovvero poco più di un anno or sono, GrandePuffo ha ritrattato. I Puffi hanno insorto e reclamato, discusso e recriminato, accusato GrandePuffo di non essere un uomo di parola. Nulla da fare, la questione cane è stata nuovamente archiviata a data da non destinarsi. Qualche mese fa, PuffoPiccolo, per la sua cresima, ha chiesto Black, il cane dei nonni, come unico desiderio. Black non è mai arrivato: GrandePuffo ha posto un divieto grande come il Pirellone e la squinternata famiglia è ancora senza cane. Ieri sera, per la milionesima volta, PuffoMedio e GrandePuffa hanno sollevato l’argomento, la Sottoscritta, ormai abituata a fare da materasso dei pugni, ha cercato di mantenere un basso profilo non intervenendo nella discussione il cui esito, le è già più che conosciuto. Ho solo accennato, con gentilezza e candore, ad un’alternativa sempre a quattro zampe ma un tantino meno impegnativa di un cane: il gatto. Uno spiraglio di luce pare essersi aperto nel cuore granitico di GrandePuffo, occorre attrezzarsi , sondare il terreno e non insistere, lavorare sotto banco, organizzare e portare avanti un progetto che lo soddisfi. A tal proposito: avete mica un gattino a disposizione, a gratis, cucciolino, da fornirci post festività natalizie?

allora, usiamola….

Spesso e volentieri, diamo per scontate certezze che, non per tutti sono acquisite, consolidate. Essere padroni di una lingua, quella, per intenderci, parlata nel luogo in cui vivi, è sinonimo di sicurezza, la padronanza della stessa, seppure non sia la tua lingua madre, è garanzia di comprensione, in entrata e in uscita, di quello che il mondo ti propina, di quello che tu vuoi dire al mondo che ti circonda. Troppo spesso tendiamo a giudicare, ad additare, chi non appartiene al nostro vissuto, chi non viene dal nostro stesso ambiente, chi, costretto o per volontà, ha dovuto imbarcarsi, molte volte nel vero senso della parola, in avventure che l’hanno portato lontano da casa. Sentirsi a casa è un privilegio raro, un concetto su cui dovremmo tutti fermarci a riflettere. Avere un tetto sopra la testa e un letto in cui dormire non sono le uniche prerogative per il benessere di cui tutti, indistintamente, abbiamo bisogno. Lavorare, potersi mantenere, non sono le uniche mete a cui si aspira per stare bene e non soffrire. Non saper parlare bene, o non saper parlare quasi per nulla, la lingua madre del luogo in cui ci troviamo a vivere è uno svantaggio che crea ansia, preoccupazione, nostalgia, imprevisto, danno. L’ho già detto in questa sede, ho provato, poco tempo fa, la sensazione di inadeguatezza derivante dal non conoscere quasi per niente la lingua inglese. In qualità di turista non è stato poi un grande problema, santo google traduttore mi ha dato una grossa mano, GrandePuffo ha fatto il resto, garantendomi comunque, a prescindere dalla mia ignoranza, la possibilità di comprendere ed essere compresa. Non sempre le cose sono così facili, non sempre e non per tutti è così semplice e scontato. Immaginete di dover parlare con i maestri dei vostri figli, con il vostro datore di lavoro, immaginate di essere costretti a dover argomentare perché ne avete bisogno, estremo bisogno, immaginatevi con vostro figlio ammalato al pronto soccorso, immaginate di avere necessità di spiegarvi, nel dettaglio, di dover raccontare qualcosa di voi, non per il semplice gusto di conversare, ma per la reale ed improrogabile necessità di far sentire la vostra voce. E ora pensate a chi, questo giochetto, non lo fa per mettersi nei panni di, ma lo deve fare tutti i giorni, al supermercato, a scuola, al lavoro, per strada, in Comune. Come vi sentireste? Quale sarebbe il vostro pensiero? Quali emozioni muoverebbero il vostro animo? Empatia, questo cerco di insegnare ai miei figli, da sempre, con risultati non necessariamente positivi, ma con l’intento di trasmettergli un principio fondamentale. Quando incrociamo per strada una donna egiziana, cinese, marocchina, peruviana, senegalese, ci sentiamo superiori, e per certi versi lo siamo davvero, ma unicamente perché abbiamo a nostra disposizione strumenti più validi per farci capire, per capire chi ci sta di fronte. Le classiche frasi: starebbero meglio a casa loro, trovano concordi, credo, loro stessi per primi. A meno che tu non scelga volontariamente di trasferirti in un luogo che ami e che ti piace di più di quello in cui sei nato e vivi da sempre, non sentirsi a casa è una brutta sensazione che, penso, ti resta appiccicata addosso per sempre. Vuoi per la nostalgia della tua vera casa, vuoi perché non tutti provano ad accoglierti come avresti bisogno, diritto. Ogni lunedì incontro persone desiderose di imparare, di migliorare, di acquisire conoscenze indispensabili, per loro e per i loro cari, ogni lunedì vedo andare e venire persone di svariate nazionalità, età, sesso ed estrazione sociale, tutti accomunati dalla medesima necessità: sentirsi a casa. Ora non voglio fare la paladina della giustizia, ma semplicemente ricordarmi e ricordare che tutti hanno desiderio di stare bene, di vivere bene, di garantire sicurezza e cura ai propri figli, alle persone amate, tutti, senza distinzione alcuna. Fa specie vedere donne più grandi di me o ragazze molto più giovani, sedersi ad un banco imbracciando quaderno e penna, fa specie percepire il bisogno, l’urgenza, di fare un passo in più, di sentirsi parte di qualcosa, di acquistare consapevolezza e certezze. Fa specie soprattutto per il periodo che stiamo vivendo, per le frasi che aleggiano nell’aria e sui giornali, inneggianti ad una spaccatura che fa tristezza e che fa a pugni con il progresso a cui siamo arrivati, a cui aspiriamo. Insegnare ai propri figli l’apertura verso il prossimo è il primo passo per un’accoglienza necessaria e imprescindibile di cui, un domani, potrebbero avere loro stessi bisogno. Guardare, agli altri, con occhi puliti, è un principio che andrebbe impartito in qualsiasi ambito. Imparare a non godere delle difficoltà e delle mancanze altrui, è quanto di meglio possiamo fare per stare bene, per far star bene chi abbiamo vicino. Lo so che queste parole fanno tanto predicatrice di ‘sta cippa, ma credere in un mondo meno schifoso è così utopistico? Così fuori sincro? Ogni lunedì mi stupisco della forza d’animo delle persone che mi trovo di fronte, dell’orgoglio che leggo nelle loro parole stentate, nella tenacia con cui, due volte la settimana, magari con un codazzo di figli da far invidia alla Famiglia Bredford, si incamminano avanti e indietro, con l’intento di migliorare, di imparare. Abbiamo la fortuna di avere un’istruzione che ci permette di camminare a testa alta, di viaggiare e vedere il mondo, di intenderci ed intendere, e cazzo, allora, usiamola quest’istruzione e facciamola usare ai nostri figli, non solo per credersi superiori.