C’era un volta un mondo strano…

C’era una volta un mondo strano, un mondo pieno di frivolezza e vuoti da riempire. Questo mondo stava sempre un passo avanti e i suoi abitanti credevano di essere i migliori, sempre. Guadagnare e spendere erano le parole d’ordine, così si aprivano porte e si chiudevano portoni, gli uni in faccia agli altri. Era tutto semplice: con un solo click si poteva ottenere qualsiasi cosa, si compravano oggetti e si accatastavano robacce, grazie a quelle, ci si sentiva ricchi e soddisfatti, per poco. Sin da piccolissimi persino i bambini imparavano ad accumulare e a perdere interesse verso qualunque cosa, fosse essa bellissima o totalmente insignificante. Si faceva perennemente a gara, a chi avesse il vestito più costoso, il telefono più accessoriato, la macchina più luccicante, il ruolo più influente, a chi facesse le vacanze nel posto più lontano e a chi fosse meno povero, meno sconosciuto, più connesso. Si perdeva tempo ad osservare il nulla, esplosivo ed attraente, negli schermi dei cellulari, dei televisori sempre più grandi e sempre più sottili, a ricordare quanto di poco spessore fosse quasi tutto quello che usciva di lì. Ci si lamentava, di tutto e di niente, pur di dar voce alla negatività che, così come gli oggetti nelle case, si accumulava sui cuori e nelle menti delle persone. Si correva, da una parte all’altra, incapaci di fermarsi, di pensare, di valutare, di amare, di parlare, incapaci di dirsi un ti voglio bene, ti amo, ti odio, tutti carichi di una smania d’essere e avere così forte da cancellare e rendere vuoto ogni sentimento. Ci si domandava come mai le giornate fossero così frettolose e come il tempo trascorresse così velocemente, non bastava mai, non finiva mai. A gennaio si pensava a luglio, a luglio si programmava dicembre, in una rincorsa perenne a qualcosa da fare, da acquistare, da prenotare, da scandagliare, tutti in fila, uno dietro l’altro, verso obiettivi così comuni da far somigliare gli uomini ad un gregge sfilacciato di pecore cieche. E quando si stava male, quando qualcuno soffriva, arrancava, penava, era più facile stargli alla larga o occuparsene di sfuggita, un messaggio, una breve e poco sentita pacca sulla spalla…domani passa…d’altronde…passa tutto. Un mantra facile e indolore, a segnalare una così profonda mancanza di empatia da rasentare l’alienazione. Quel mondo strano andava avanti, nonostante tutto, ignaro di essere sul punto di implodere, di rovesciarsi, mattone su mattone, antenna su antenna, una guerra dopo l’altra, notizie appena accennate di una disfatta velata e potente, silenziose urla in mezzo al rumore assordante del vuoto. Tutti contro tutti, muso contro muso, dandosi le spalle, occupando il tempo, ammazzandolo, il tempo, riempiendo ogni singolo spazio, per paura della noia, contro il terrore del silenzio, che, quando arriva, costringe a pensare, a guardarsi in faccia. Lentamente il mondo ha ceduto ma gli uomini hanno continuato a correre, su un terreno sbriciolato e cedevole, incuranti del disastro a cui stavano assistendo, a cui stavano prendendo parte, di cui erano i diretti responsabili, tutti, nessuno escluso. Lentamente il mondo ha sussurrato, chiedendo aiuto, gli uomini lo hanno ignorato, chi si ferma è perduto, chi si ferma non guadagna, non accumula, non assimila, non vince. Lentamente il mondo ha iniziato a sgretolarsi, delicatamente, come solo il mondo sa fare, convinto, ancora, dopotutto, che bastasse un segnale, un cenno, che gli uomini avrebbero sicuramente accolto, considerato. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi tiene chiusi gli occhi. Il mondo ha arrancato, l’uomo lo ha sentito, ma la smania d’essere e avere era divenuta così forte, così feroce ed irrazionale da cancellare tutto il resto. Così, da un nulla che nessuno pare conoscere, ecco l’arma segreta che lo strano mondo sfodera per farsi ascoltare, per aiutare i propri abitanti, per fermare una corsa che inevitabilmente porta al precipizio. Un’arma silente, invisibile, che costringe l’uomo a fermarsi, a smettere di accumulare, di respirare. All’improvviso lo strano mondo e le sue bellezze restano l’unica cosa in movimento, in libertà. Il sole sorge, la notte arriva, il vento soffia, gli alberi crescono, gli animali escono allo di nuovo allo scoperto, la primavera fa lentamente il suo corso, vestendo il mondo di colori tenui, portando la gentilezza di cui gli occhi hanno bisogno. E l’uomo, ora, non può far altro che stare a guardare. Fermo. Immobile, costretto ad una lentezza di cui non conosce più il nome, di cui non ricordava il gusto. L’uomo ricorda allora cos’è la paura, quella paura di cui il mondo ha ben chiaro il nome. La solitudine non è più garanzia di salvezza dai fastidi d’intorno, ma una tortura e una costrizione. Le porte si chiudono, il tempo, un tempo scarso e mai avanzato, si dilata e dilata i rapporti, colora di nuove sfumature le giornate, le rende morbide, lente, da riempire, daccapo, come l’uomo non era più in grado di fare. Si ritrovano le parole, si riscoprono abitudini archiviate da anni, l’orologio sembra aver una prolunga sino ad allora nascosta. Il mondo è sempre più strano, dominato dall’arma che egli stesso ha sfoderato. L’uomo inizia ora a capire che forse qualcosa non va, inizia ad avere davvero paura, a temere di non poter più essere. L’arma è subdola, si muove veloce, miete vittime, spaventa, blocca il respiro, costringe, all’immobilità. Nemmeno in questa assurdità, nemmeno in preda al terrore gli uomini sono in grado di darsi una mano. Continuano a pensare, singolarmente, convinti che sia giusto così, che contro l’arma ognuno debba combattere la propria guerra personale. Nessuno si salva da solo.

C’era una volta un mondo strano, dove il sole, le stelle, la luna, gli alberi, i mari, le montagne, non avevano nulla da temere, non più, un mondo che si era ripreso il giusto spazio, che sapeva muoversi con il respiro primordiale che gli uomini avevano dimenticato. Era un mondo dove il tempo trascorreva lento. Gli uomini erano prigionieri, mascherati e soli, in balìa di un nemico più potente di qualsiasi click. C’era una volta un mondo che doveva reinventarsi, dove gli uomini avrebbero dovuto ricostruire i rapporti, ritrovare le parole gentili, riscoprire, i gesti semplici e i bisogni reali, imparare a non usare la diffidenza, la differenza.

Un mondo che aveva deciso di ribellarsi, costringendo i suoi abitanti a riscrivere la propria storia. Il mondo piangeva, in silenzio, conscio di aver inflitto una punizione severa, inevitabile.

L’uomo, forse, a quel punto, poteva aprire un libro bianco e inventare un nuovo capitolo.