Sono in letargo

Quando il meteo tende al freddo, al Sottoscritta assume automaticamente la postura di un riccio arrotolato. Tendenzialmente allergica a pioggia, neve, freddo, intemperie autunnali e affini, non comprendo come e perché, questa stagione possa piacere. Il buio, il grigio, l’umidità, sono tutti elementi che portano irrimediabilmente alla depressione o che, se già depressi, ringalluzziscono coloro che, all’affacciarsi di questo periodo, sono felici e gongolanti come pasque. Per uscire di casa occorre dimezzare qualsiasi tempistica per lasciare il tempo necessario all’investitura, per entrare in qualsiasi luogo chiuso, occorre prepararsi e trovare un appoggio per depositare giacca, cappello, sciarpa, guanti e qualunque altro genere di suppellettile anti-freddo ci si sia messi addosso. Personalmente trovo indispensabile un accessorio atto a tenere calde schiena e pancia, e non tacciatemi di vecchitudine perché saranno almeno quindici anni che indosso la canotta o il body, quindi, quindici anni fa ero tutto fuorchè anziana. Per body, sia chiaro, non intendo quello color carne o color castoro di vetroresina utilizzato dalle sciure eh, ma un semplice body di Tezenis taglio vivo e sgambatissimo, ci tengo particolarmente a sottolinearlo dato che ogni volta che si dice body la gente si immagina un’armatura color cipria spento dalle impunture d’acciaio. Il body e la sciarpa sono, da secoli, due appendici insostituibili adottate dalla Sottoscritta per contrastare gli effetti nefasti del gelo invernale (entrambi indossati a partire dai primissimi accenni di frescura, quindi, se necessario, anche a partire da fine agosto). Da quest’anno, memore degli insegnamenti di un vecchio amico, la Sottoscritta ha deciso di abbandonare la tanto amata sciarpona e di tentare la sorte a gola scoperta. Non enuncerò apertamente i risultati di questo esperimento, coadiuvato dall’assunzione di un bicchiere d’acqua e succo di limone ogni santissimo giorno, ma mi limiterò a comunicare e confermare che SI PUO’ FARE A MENO DELLA SCIARPA (chi l’avrebbe mai detto). Fatto salvo il dato appena indicato e la presenza costante del body, la situazione invernale si aggrava ulteriormente quando urge indossare vestitini e gonnelline. Fosse per una questione puramente fashion indosserei gonne e vestiti senza calze ma lo squaraus è dietro l’angolo e, ahimè, mi vedo costretta ad infilare scomodissimi collant che, date le mie misure, o mi arrivano alle ascelle, o mi segano l’apparato urogenitale, o, ancor peggio, mi schiacciano la pancia causandomi fastidiosissimi episodi di meteorismo inespresso. Possibile, mi domando io, che siamo riusciti a clonare pecore e trapiantare arti e ancora non siano stati inventati dei collant comodi e fighi che non sembrino armature urticanti ? E’ assodato, a questo punto, che chi inventa questo genere di articoli non li debba mai indossare. Il problema sorge in occasione di pipì impellenti, quando, nell’urgenza improrogabile di rilasciare la vescica, mi trovo costretta a tirare su la gonna, slacciare il body, tirare giù i collant e, finalmente, potermi sedere e definire la pratica sfiancata dall’interminabile attesa. Il rischio di pisciarsi addosso senza essere ancora arrivati al secondo strato è purtroppo altissimo. Ovviamente si potrebbe ovviare indossando unicamente pantaloni, ma l’inconveniente del body non è bypassabile. Che poi, anche i pantaloni, hanno le loro complicazioni. I jeans sono gelidi, e chi dice che d’inverno tengono caldo ha forse il sangue a 30° e quindi non può interloquire sull’argomento con una freddolosa come me. Il velluto, finchè sei all’esterno va anche bene, ma appena entri in un posto chiuso e magari ti siedi anche a gambe accavallate, il pube ti suda come ad un ciclista a Ferragosto. Lana e amici della lana peggio ancora, che finisci anche a grattarti, con i leggins fai prima ad infilare il sedere nel freezer. Insomma, l’ideale sarebbe indossare una super Pippo sotto ad ogni pantalone, se non fosse che poi somiglieresti ad un insaccato natalizio. Hai voglia a cercare modelli di outfit su Pinterest, quelle stronze immortalate nelle foto autumn-winter, sono sempre alloggiate in qualche località amena in quel della California e, pur, con sciarpa e cappellino con pon pon, le calze non vengono contemplate e sono fighe anche con addosso il piumone della Bassetti. Anche se, alla fine della fiera, sei riuscito a darti una parvenza di umanità nemmeno troppo vomitevole, resta sempre da affrontare la tematica GIACCA/GIACCONE/CAPPOTTO. Se metti la giacca corta, fosse anche pesante e quindi bella calda, ti si gela la bassa schiena e il giorno dopo sei bloccato che nemmeno Mastro Geppetto a novant’anni. Se metti il giaccone grosso grosso puoi fare a gara di figaggine con Babbo Natale e la Sora Lella. Se ti infili il cappotto bello lungo fino ai piedi, la gente ti chiederà se per caso tu sia appena uscita dalla doccia. Insomma, una tristezza che hai voglia a cercare di amare l’inverno. Posto anche che, con tutta la fatica del caso, tu abbia completato l’outfit e sia il momento di uscire, potresti avere necessità di metterti un cappellino, chè ad una certa, prendere l’aria gelida sulla fronte non è che faccia proprio salute. Se sei fortunata e hai la faccia da cappello, potrai coprirti con un basco, un cappellino con pon pon o anche una bella fascia di lana di quelle che usava Moira Orfei e che stavano bene solo a lei e a Marylin Monroe. Ma se la vita si è fatta beffe di te e ti ha dotata di un naso che non definirei propriamente alla francese, ecco che, dopo i collant, il body, i calzini, la giacca, il giaccone, il cappotto, i jeans e tutto quello che hai dovuto e voluto metterti per combattere il fottuto gelindo, ti toccherà gestire anche la questione cappello e, a meno che tu non abbia finalmente i capelli un po’ lunghi che stemperino l’effetto picchio, guarderai la tua immagine allo specchio riconoscendoti a stento in quell’avvoltoio che ti rimanda uno sguardo sconfortato e incazzato. Dunque, per concludere, mi pare chiaro che autunno e inverno, oltre ad essere nemici della felicità e della positività, anche e solo per una questione puramente cromatica, siano anche particolarmente difficoltosi e complicati in relazione all’abbigliamento più adatto da adottare. Mi pare ovvio, quindi, che, quale epilogo felice di questa lamentela personale, la Sottoscritta assuma automaticamente la postura di un riccio arrotolato, diciamo da metà settembre a fine aprile. Se mi incontrate per strada e tra i mille strati mi riconoscete, per favore, stringetemi forte in un abbraccio ma non parlate troppo forte, sono in letargo.

basta una scatola

C’era una volta un bambino pacioso a cui bastava un biscotto e un passeggino per essere il più docile dei marmocchi. C’era una volta un bambino pacioso che, d’un tratto, si trasformò in un pazzo scatenato, capace di arrampicarsi su ogni genere di albero, ad altezze vertiginose, senza la benché minima paura. Il timore, il senso del pericolo, non l’ha mai toccato, nemmeno quando, un giorno, alle elementari, ha ben pensato di gattonare sotto un tir per vedere cosa ci fosse sotto quell’ammasso gigante di ferraglia. C’era una volta e c’è oggi, un ragazzino turbolento, chiacchierone, irrefrenabile, che spesso non viene compreso né aiutato a comprendersi. C’era una volta e c’è tuttora, un ragazzino magro e dinoccolato, con mille idee in testa e un cuore talmente grande da pesare più del suo stesso corpo. Ha gli occhi grandi e scuri, capelli improponibili che mettono in evidenza un crapino in cui ribollono pensieri ed emozioni, due ali di pollo al posto delle spalle e gambe rachitiche a sostenere una vivacità incontenibile, tacciata di follia. Un fascio di nervi che corre e scatta, fugge e ritorna, lo sguardo fugace di chi non può stare fermo per troppo tempo, ché il tempo è prezioso e le cose da fare sono davvero tante. Ha mani sottili che ricamano, dita veloci che disegnano, occhi profondi che leggono, inventano, cercano, oltre. La mente pronta, rigonfia di progetti, spesso impossibili, irrealistici, ma comunque progetti, desideri, pensieri, che in un’era veloce e al contempo ferma, sono un’eccezione ad una regola troppo omologata. Non è facile averci a che fare, non sempre è semplice comprendere la sua irrazionalità, raramente, i più, si soffermano ad ascoltarlo, forse perché parla troppo, o troppo veloce, forse perché è più comodo lasciare che le apparenze decretino le sostanze, o forse, solo perché la stranezza non va sempre e solo giudicata, ma a volte solo goduta, proprio per la sua natura esclusiva ed imprevedibile. C’è chi dice che non ascolta, che non si sa comportare, chi lo adora e chi proprio non lo tollera, c’è chi guarda i suoi capelli e ci vede solo capelli, chi, invece, dovrebbe far scendere lo sguardo un po’ oltre e accorgersi che dietro c’è un mondo speciale, un mondo in divenire che non tutti si possono permettere, non tutti hanno a disposizione. Quel ragazzo ha confezionato un regalo per un amico speciale, non ha speso un centesimo, perché non servono grandi cifre per dimostrare un sentimento. Ha messo in una scatola un’amicizia che dura da una vita e, semplicemente, l’ha consegnata nelle mani di quell’amico. Dentro c’erano pensieri, condivisioni, luce, quella luce che si trova nelle emozioni e che, molto spesso, ci dimentichiamo di accendere o di osservare e fare nostra. Dentro c’erano loro due, che si conoscono dall’asilo nido, che sanno apprezzarsi per quello che sono e non sempre e solo per quello che gli altri pensano di loro, vedono in loro. Dentro c’era un ragazzino esuberante e la sua fantasia, un cuore aperto e la sua frenesia. L’orgoglio è un sentimento controverso, spesso sopravvalutato quando lo indossiamo come una corazza a proteggerci, sano e godibile quando lo avvertiamo accorgendoci che, chi ci sta vicino, ha compreso, forse un pochino anche grazie a noi, che per fare felici le persone che amiamo, basta un pensiero pulito e la dimostrazione, pura e semplice, di quello che siamo, di quello che sentiamo, senza troppi fronzoli, senza troppe pretese, se non quella di metterci a nudo, in nome di un sentimento forte e bellissimo. C’era una volta e c’è oggi, un ragazzino che, forse, prenderà una manica di sportellate sui denti. C’era una volta e c’è oggi, un ragazzino magro, pazzo e meraviglioso, che non ha paura di essere quello che è, oggi, ieri e domani, a dispetto di un mondo che, spesso e volentieri, non apprezza altro che una facciata universalmente ostentabile ma innegabilmente falsa e vuota. Io questo ragazzino lo amo, di un amore che va al di là dell’amore di una madre per un figlio, lo amo perché è un piccolo fuoco brillante, pieno di talento e sentimento, perché non ha paura di nulla, nemmeno di sbagliare, perché ama e vuole essere amato, indistintamente, senza pregiudizi, senza pretese, perché nei suoi occhi vedo la fiducia verso gli altri, la capacità di non lasciarsi condizionare dalla apparenze, perché per lui l’amicizia è una scatola di pensieri ed intenzioni e se il mondo fosse un pochino più somigliante a questo ragazzino, sarebbe senza dubbio un mondo migliore.

operazione Babbo

Anche quest’anno, come lo scorso anno, si pone il dilemma di Babbo Natale. Quanto accaduto con PuffoMedio, che l’anno scorso frequentava la seconda media, ha lasciato stralci di tristezza e nostalgia nella Sottoscritta ed è rimasto, nella storia, come il peggior intervento materno mai effettuato. Giusto per riassumere, nel 2018, poco prima del periodo decretato come ante Natale, la Sottoscritta ha chiesto, con grandissima delicatezza, a PuffoMedio, come si ponesse nei confronti di Babbo Natale, ricevendo, per tutta risposta, due occhioni lucidi scoppiati poi in un pianto irrefrenabile. PuffoMedio, pur conscio di essere assolutamente fuori sincro rispetto alla totalità dei suoi coetanei, credeva o voleva credere strenuamente nell’uomo vestito di rosso. La Sottoscritta, presa alla sprovvista in quanto già convinta di dover dare spiegazioni plausibili in merito ad anni e anni di “bugie”, ha invece dovuto consolare un PuffoMedio sconvolto dalla presa di coscienza di una magia purtroppo finita. Me la sono cavata citando il bellissimo film “Le cinque leggende” e confermando ad un PuffoMedio non del tutto rincuorato, che Babbo Natale è una delle meravigliose magie che i bambini portano con sé fino al momento in cui decidono, da sé, di voler diventare grandi e di credere in altre magie. L’operazione Babbo Natale 2018 pare non aver portato strascichi negativi e PuffoMedio ha tenuto botta garantendo un silenzio omertoso con PuffoPiccolo. E qui arriviamo all’argomento del post di oggi, ovvero, PuffoPiccolo e Babbo Natale. Forte dell’episodio dell’anno passato, ho deciso che non sarei entrata a gamba tesa sul discorso ma che avrei posto semplicemente una domanda aspettandomi qualsiasi genere di risposta. Pertanto, alla domanda: come sei messo con Babbo Natale, mi aspettavo sinceramente che, l’anzianotti PuffoPiccolo rispondesse dall’alto dei suoi undici anni e del suo proverbiale pragmatismo confermandomi che la magia fosse purtroppo finita. E invece noooooo. PuffoPiccolo, pur consapevole di essere ormai un fragile baluardo in mezzo alla disillusione dei suoi amici e compagni, ha comunicato, ad una Sottoscritta in bilico tra la commozione e l’incredulità, che Babbo Natale per lui esiste eccome, e che a lui non interessa se gli altri non ci credono più. Se dovessi stare ad ascoltare i commenti sarcastici e lapidari di GrandePuffa, dovrei prenderlo nuovamente da parte e sparare la bomba al vetriolo spiegandogli che è troppo grande per la magia e che deve lasciare il posto ai bimbi più piccoli, ma, cuore di mamma, la Sottoscritta piuttosto che abbattere quest’ultimo barlume di piccolezza, si farebbe tagliare i capelli a zero per poi dipingersi il cuoio capelluto d’azzurro. GrandePuffa continua a sostenere, così come fece lo scorso anno con la questione PuffoMedio, che a undici anni Babbo Natale debba essere mandato in pensione. Ce lo asfaltano mamma, ripete in continuazione, convinta che i maligni possano prendere di mira il fratello e bullizzarlo in qualità di sfigato che ancora crede alle favole. La Sottoscritta, nonostante si renda conto che, effettivamente, in prima media Babbo Natale possa realmente essere destituito dal ruolo, proprio non riesce ad essere la mittente di un messaggio tanto terribile, e, inoltre, crede che PuffoPiccolo se la cavi egregiamente con eventuali bulli, lui che, quando le parole si esauriscono o esauriscono la loro efficacia, parte in direttissima con un bel colpetto di gomito e chi si è visto si è visto. Credo fermamente nella magia e l’idea che, prima o poi, più prima che poi, immagino, tutti e tre i Puffi archivino l’uomo dalla barba bianca nel cassetto recondito delle belle favole finite, mi intristisce così tanto da farmi venire il classico magone con il barbello tremolante. L’unica, infinitesimale nota positiva nello scardinarsi definitivo e generale della meraviglia del Natale, potrebbe essere unicamente la fine delle richieste esorbitanti e assurde motivate dal dogma, sempre ribadito dalla Sottoscritta, che i regali Babbo Natale li costruisca insieme ai folletti e che, quindi, nessun regalo e nessuna pretesa sia impossibile. Effettivamente, da quando PuffoMedio e GrandePuffa hanno smesso di credere in Babbo, la letterina, che si fa comunque per una questione di comodità genitoriale e familiare, riporta molte meno voci e, ancor meglio, richieste più abbordabili dal punto di vista economico. Nei prossimi giorni ci metteremo di buzzo buono con le letterine, spero di non dover smentire quanto appena scritto.

Uanda

Da qualche tempo, complice il fatto che NonnaVolante abbia perso legalmente la facoltà di guidare la sua Pandina, la Sottoscritta si divide equamente tra la family car e la suddetta Pandina, con cambio automatico. Sono partita, come guidatrice, ormai mille anni fa, proprio da una mitica Panda30 color mattone alla quale, negli anni seguenti all’acquisizione della stessa, avevo applicato alle portiere dei meravigliosi fiori antisdrucciolo della doccia di colore bianco. Ero estremamente fiera ed orgogliosa della mia vettura e, sebbene fosse stata pagata davvero due lire, che all’epoca erano davvero lire e non euro, e cadesse a pezzi vistosamente, per me era paragonabile alla carrozza di Cenerentola. La mia mitica Panda mi portava ovunque volessi andare e, proprio a causa delle sue pessime condizioni, veniva utilizzata da tutta la compagnia per i più svariati utilizzi. Cani e affini erano ovviamente bene accetti, trattandosi di un’auto con davvero pochissime pretese di pulizia. Al suo interno la radio non esisteva e, per poter ascoltare dell’ottima musica, la Sottoscritta aveva installato, infilandola nel vano cruscotto davanti al sedile anteriore del passeggero, uno stereo di dubbia provenienza che, seppure messo a palla, non garantiva una corretta udibilità a causa del rumore dei vuoti di carburazione e della marmitta probabilmente bucata. Nonostante ciò, lo stereo continuava imperterrito a riprodurre musica rock ad un volume talmente alto che, quando ci si fermava ai semafori, la mia Pandina faceva invidia a qualsiasi tabbozzo di provincia dotato di casse mirabolanti. Uno dei principali difetti, via via che la “Uanda” si faceva anziana, era la copertura interna del tetto che, sgretolandosi, nevicava pulviscoli arancioni di imbottitura, su capelli, giacche e qualsivoglia genere di superficie a disposizione. Devo dire che, nonostante non fosse propriamente elegante andarsene in giro con dei pallini arancioni tra i capelli, anche la questione della neve in versione hare krishna, aveva il suo perché. In occasione di festeggiamenti abusivi in quel dei vivai del paesello, la Uanda era ufficialmente investita dell’incarico di carico e scarico di legname e vettovaglie. Utilizzata da una variegata gamma di amici, ha sempre fatto il suo dovere senza lamentarsi né arrancare. All’epoca, abitavo ancora in quella che si potrebbe definire alta Brianza, dal mio ameno paesino, partivo in pompa magna per recarmi in quello che, oggi, è il mio paese di residenza, ed allora era il luogo di ritrovo della nostra compagnia di squinternati. Sin dallo stradone comunemente detto Pagani, la Uanda avvisava tutti del mio arrivo, fedele e rumorosa come un carrozzone gitano. Non della stessa amorevole idea erano le forze dell’ordine che, ad ogni piè sospinto, fermavano con poco garbo la Sottoscritta per accertamenti di qualsivoglia genere, forse attirati, non benevolmente, dai fiori bianchi antisdrucciolo a me tanto cari. Patente e libretto, comunicavano seri i gentili carabinieri ad una ragazzina colpevole solo di possedere una macchina poco ordinaria. Non ricordo bene per quale motivo, ma quell’epoca, essere fermati dai carabinieri o da qualsivoglia genere di forza dell’ordine, non era esattamente motivo di gaudio, per la mia generazione, spesso e volentieri ci si sentiva stranamente sotto accusa o ancor peggio, colpevoli di qualche crimine. Ripeto, non ricordo assolutamente il perché. Grazie allo stato di conservazione abbastanza naif della Uanda, era cosa buona e giusta che io vi trasportassi, praticamente tutti i giorni, il mio adorato cane Moki, brutto come la fame e dolce come un barattolo di miele. Moki stava composto e tranquillo con le zampe posteriori sul sedile dietro e quelle anteriori appoggiate allo schienale dei sedili davanti, con il suo musino infilato tra i due poggiatesta e un alito talmente fetido da avere potere lisciante sui miei capelli afro. Perfetta appendice di un’automobile dal folklore discutibile, Moki era il mio compagno di vita, nonché l’inseparabile amico del cuore di tutti i tossici della Villa Reale, accanto ai quali si sedeva per ore e ore godendosi coccole disinteressate al profumo di thc. Uanda è stata per anni il simbolo del mio anticonformismo e del più totale menefreghismo nei confronti di obblighi e doveri, nei confronti di una società becera e arrivista che poco si adattava alle mie esigenze ed alle mie aspettative. Per dimostrarmi che anche lei abbracciava la mia filosofia di vita mezza hippie, ai tempi del mio primo impiego, ospitava sui sedili posteriori la peggio specie di eroinomani i quali, per l’inoculazione, cercavano un riparo sicuro e asciutto. La prima e la seconda volta sono morta di paura quando, andando a riprendere la Uanda per tornare a casa dal lavoro, la trovavo aperta e abitata dal Detlef (noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino) di turno, ma col tempo, resami conto che dopotutto non facevano nulla di male e non sporcavano nemmeno la già poco pulita Uandina, ho deciso che sì, avrebbero potuto tranquillamente farsi di quel che volevano sui sedili posteriori, purchè, al mio arrivo sgommassero all’istante. C’era un tacito accordo tra me e quei quattro scappati di casa, loro potevano usufruire di Uanda per una dose e un “viaggetto” e io avevo la facoltà di sbatterli fuori a calci in culo non appena toccavo la maniglia. I tempi andati, quasi quasi ho nostalgia anche di quei fantasmi dal colorito giallognolo e dai capelli radi che, emergendo come ombre dalla mia macchina, mi ricordavano che un riparo non si nega a nessuno, Giuseppe e Maria ne sanno qualcosa. La mitica Uanda e il dolcissimo Moki hanno, a distanza di poco, vissuto più o meno il medesimo epilogo, lasciandomi sola e costretta a fare un finanziamento per acquistare una fiammante Micra nera che, pur in tutta la sua magnificenza e luminosità di km zero, non ha mai occupato, nel mio cuore, nemmeno un quarto dell’amore e dei ricordi che Uanda si è guadagnata di diritto. Così, con un pizzico di malinconia per i tempi che furono, per i fiori bianchi antisdrucciolo, per Moki e persino per il suo alito mefitico, per i falò nei vivai, per i tossici della stazione di Monza, per la neve color mandarino sui capelli, per i carabinieri ed il loro inspiegabile vizio di fermarmi ogni due per tre, per la doppietta d’obbligo, per lo stereo e la musica ovattata dal casino prodotto dalla marmitta, per il posacenere sempre straripante di cicche, per i tappetini persi e mai ritrovati, per il bagagliaio pieno di schegge di legno, per il finestrino che ad una certa non si poteva più abbassare, insomma, per queste e mille altre cose che la prima mitica macchina porta con sé insieme al profumo dell’amata gioventù, rimpiango la mia Uanda, ora che, mi siedo ogni mattina sul Pandino di NonnaVolante riassaporando la piccolezza dell’abitacolo e la comodità di una macchinina tascabile. L’unico grosso problema che, per chi mi conosce bene, è per me davvero un tasto dolente, è che, né Uanda né l’attuale Pandina, hanno i sensori di parcheggio per la retro, quindi, occhio a voi e che Dio me la mandi buona.

sola andata

Che bella età l’adolescenza. Vero? E’ quel meraviglioso momento in cui credi che tutto sia possibile, che il mondo e le sue mirabilanti possibilità si spieghino davanti ai tuoi piedi. E’ quando ogni frase, ogni canzone, ogni film, ti fanno sognare ad occhi aperti ed immaginare un lieto fine del quale sarai protagonista indiscusso. E’ lì, in quel preciso istante, che vivi come se il domani non fosse un tuo problema, il magico regno dell’invincibilità, del tutto e subito, dell’IO, senza remore né rimorsi. L’amicizia, l’amore, la scuola, tutto rimanda alla garanzia di divertimento, tutto gira alla massima potenza, in un turbine di sensazioni ed emozioni che non hanno nulla da invidiare ad una serie tv. Ecco, questa è la visione idilliaca dell’adolescenza di un adolescente. Ora parliamo del rovescio della medaglia: la visione di questa età stupenda dagli occhi di un genitore. E’ quel meraviglioso momento in cui spiegare che NON SI PUO’ e NON SI FA sono parole che devono necessariamente fare parte del vocabolario materno/paterno, senza che questo determini ed inneschi, invariabilmente, una guerra nucleare. E’ quando ogni frase, ogni canzone, ogni film, ti fanno sperare, desiderare, supplicare, che questo periodo apocalittico abbia una fine, possibilmente senza feriti e contusi. E’ lì, in quel preciso istante, in cui, una madre ed un padre, si ritrovano ad avere a che fare, spesso e volentieri, con uno sconosciuto che ancora per poco e non sempre, veste i panni di quello che, pochi giorni prima, sembrava davvero tuo figlio. E’ lì, in quel preciso istante, in cui la casa si riempie senza possibilità di redenzione, di qualsiasi genere di oggetto, abbandonato senza pudore e raccolto, solo dopo diverse e in clamorosa successione temporale, da un individuo così scazzato da apparire un depresso cronico. E’ quando, nel trascorrere di un tempo decisamente breve, si passa dalle risate sguaiate al pianto convulso, dalla confidenza più intima e soddisfacente, al ringhio rabbioso di un pitbull ferito, dall’espressione facciale più tenera e riconducibile al neonato di cui hai confusi ricordi, alla tipica faccia di chi ha appena ingoiato un pezzo di merda. L’amicizia, l’amore, la scuola, tutto rimanda ad uno scenario distopico in cui guerra, carestia e devastazione sono le varianti meno preoccupanti. Le amiche sono meravigliose, stronze, maledette, insostituibili, l’amore è unico e raro, dannato, traditore, inadempiente, gelosissimo, per sempre, la scuola è divertente, utile, orrenda, disastrosa, teatro delle peggiori bugie, macchinazioni, omissioni. Tutto gira alla massima potenza, sempre che la porta della stanza non venga chiusa, le cuffie infilate nelle orecchie, ed il mondo esterno, di cui tutto e nulla fanno parte, relegato nell’angolo più recondito di quel/quella ragazzino/ragazzina che, poco tempo prima, correva senza sosta girandosi a guardarti per controllare che tu fossi sempre lì. A meno che tu, genitore, non sia bipolare, questa fase ti butterà, alternativamente, in un’onda di giubilo e devastazione psicologica di proporzioni inenarrabili, guastandoti umore, costandoti ingenti cifre, sbilanciando ogni tua certezza, gettandoti, purtroppo spesso, in un baratro di instabilità mentale ed emozionale che, Freud al confronto si faceva le pippe. A meno che tu, genitore, non riesca ad archiviare ogni episodio, dandogli il corretto peso, considerando l’oscillazione degli umori e degli episodi e salvaguardando la tua psiche per evitare di dover assumere massicce dosi di psicofarmaci, sappi che, questo momento, è realmente paragonabile ad una guerra batteriologica, sostanze nocive a parte. Che tu sia morbido o tirannico, le cose non cambiano assolutamente, la volta che tenterai un approccio tenero ed accomodante sarà quella in cui ti torneranno indietro le peggio cose, quando ti erigerai dall’alto della tua potestà genitoriale, su di un piedistallo aureo indossando, metaforicamente, un paio di baffetti Hitleriani, ecco che la faccia di chi ha ingoiato una merda si presenterà come una maschera indossata da mane a sera. Stenterai a riconoscere, in quello psicopatico/a colui che, solo qualche anno prima, ti stringeva al cuore giurandoti eterno e granitico amore. Diventerai un portafoglio, un taxi, un confidente, un dittatore, il peggio stronzo della terra, la madre o il padre perfetto, e poi di nuovo una merda ambulante, uno che non capisce e non ascolta, una istitutrice con la bacchetta di legno, un carceriere e ancora la migliore persona esistente al mondo. Così, come se ogni giorno fosse tutto e il contrario di tutto e tu, lì, in balìa degli eventi e di un soldo di cacio che hai nutrito, vestito e curato come un virgulto, al fine di renderlo meno cagacazzi possibile. Beh, hai sbagliato tutto, sappilo e non ti fare domande, non ti chiedere perché, cosa ho sbagliato, come posso rimediare, come mi comporto, perché tanto, qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi metodo pedagogico tu metta in atto, farai la stronzata più megagalattica possibile, stanne certo. C’è una soluzione, il trasferimento in un altro paese. Mia cugina lavora in agenzia di viaggio, potrebbe farci un bel prezzo.

La regina della famiglia

Da più di quindici anni sono la regina della famiglia, colei a cui tutti, indistintamente, si rivolgono per qualsiasi bisogno. Da: dove vanno le mutande, dove sono i pantaloni, cosa mangiamo a pranzo, cena, colazione, accompagnami qui, lì… sino a questioni ben più spinose, da trattare con i guanti e per le quali ci vorrebbe un vero e proprio manuale di istruzione che, alla nascita dei figli, nessuno si premura di consegnarti. L’indispensabilità di una madre è un dato di fatto, un dogma, un’imprescindibile principio su cui si fonda, da secoli, il concetto di famiglia. Perché diciamocelo, la famiglia è un’industria perfettamente funzionante quando una donna ne assume la direzione. Una madre che lavora e che non si occupa h24 della casa e dei figli, è come un magnate dell’industria part-time, con tutti gli annessi e connessi del caso. Rincasare, dopo le canoniche ore lavorative e ritrovarsi milioni di cose da fare, è una certezza tanto sfiancante, quanto meravigliosa. Perché, lo so io e lo sappiamo tutte, sapere di essere utili e nella maggior parte dei casi insostituibili, è fonte di perenne stress, ma, al contempo, di enorme gratificazione. Sapere di avere un potere di questo tipo è paragonabile all’essere onnipotenti. Non importa se ci sono giorni in cui vorresti che i tuoi figli si tramutassero in una mandria di lama, o, ancor meglio, in un esercito di pesci pagliaccio, perché, parallelamente, ci sono altri momenti in cui sapere di essere l’unica depositaria di necessità e bisogni, è una manna per il cuore, per l’autostima, per la propria crescita personale. Prima di avere tre figli ero una persona insicura, con un’autostima grande quanto una merdina di cimice, non è che ora io sia diventata una Lady Gaga della Brianza, anche no, ma alcune sicurezze acquisite nel tempo, derivano proprio dalla consapevolezza di essere la dispensatrice ufficiale di tutto quello di cui la mia famiglia necessita. Ma domani? Cosa succederà quando tutti avranno trovato il loro posto nel mondo? Cosa accadrà alla Sottoscritta quando mutande, calzini, pantaloni, pranzi e cene, non dipenderanno più esclusivamente da me? Sarò ancora così forte? Sarà ancora così pieno il mio mondo ? Ricordo i tempi in cui ho iniziato ad abbandonare il nido, quando le ore passate fuori casa erano di gran lunga maggiori rispetto a quelle trascorse sotto lo stesso tetto di mia madre. Come si sarà sentita? Quanto sarà diventato grande il silenzio? Mi viene spesso da domandarmi se sono quella che sono solo perché intorno a me ci sono tante cose da fare, tante persone a cui badare, tante, tantissime esigenze altrui a cui far fronte. Sarò forse una persona meno ricca ? mi sentirò sola come una regina il cui popolo ha deciso di trasferirsi in un altro regno ? credo proprio di sì. Penso a domani con un misto di angoscia e sollievo, riflettendo sul tempo in cui la casa sarà vuota, in confronto ad ora, in cui nessuno dovrà essere portato da nessuna parte, perché autonomo e patentato, in cui mutande, pantaloni, pranzi e cene, saranno gestite senza chiedere nulla alla Sottoscritta. Anche per questo motivo, spesso, penso ad un quarto Puffo, desiderando di essere nuovamente un contenitore umano, prima, e una mamma koala, poi, con quel marsupio sempre pieno e gongolante, bisognoso di cure, conforto e presenza totalizzante. E anche se qualche giorno fa ho scritto che preferirei avere tre animali in soggiorno, piuttosto che tre adolescenti starnazzanti e fastidiosi, mi ritrovo, oggi, in preda alla solita psicopatia materna, dopo aver passato un weekend intero a guardare filmini di quando i Puffi erano piccolissimi, rimpiangendo quei tempi incasinati e meravigliosi e pensando a quando se ne andranno (finalmente) fuori dai maroni, lasciandomi sola (con GrandePuffo) a desiderare che la casa si riempia ancora di urla, litigi, risate idiote, richieste alienanti, questioni cazzute, domande scomode, impegni improrogabili. La soluzione, temporanea, è indubbiamente quella di smettere di guardare i filmini dei tempi che furono, concentrandomi, piuttosto, sul disordinare, in casa, qualsiasi cosa sia ormai per loro una certezza, così da poter essere, ancora per un bel pò, l’unica depositaria del sapere, l’unica fornitrice di risposte, di qualsivoglia genere, la Regina indiscussa della famiglia.

Un lama, vi salverà la vita

Sento spesso le mamme dei bambini piccoli “lamentarsi” del carico di stress da essi provocato. Bene, non voglio questionare sul livello di affaticamento notturno, sui capricci, sul lavorìo mentale derivante dall’avere uno o più piccoli da accudire, ma voglio semplicemente dare una virtuale pacca sulla spalla a queste mamme incasinate e stanche e dirgli di godersi questi momenti terribili che, col tempo, passeranno e lasceranno il posto a questioni ben più spinose e logoranti. Essere mamma di un piccolo ha i suoi pro e i suoi contro, essere mamma di ragazzini in età adolescenziale, a volte, ha solo un gran numero di contro e, sicuramente, un apporto di stress, preoccupazioni, angosce e cazzi vari che vi faranno rimpiangere amaramente pannolini, levatacce notturne, capricci di portata mondiale e tutto quel corollario di casini che la piccolezza si porta dietro. In questo periodo, che dura da un paio di anni, forse anche tre, e credo finirà tra un bel po’, ho ripetutamente sognato di poter tornare indietro nel tempo, a quando il moccio al naso, la soluzione fisiologica, la cacca fino alla schiena e le occhiaie da panda erano la norma e la regola. Ho anche desiderato, qualche volta, soprattutto negli ultimi tempi, di non aver avuto tre figli, affermando senza troppe remore che, tornassi indietro, mi comprerei tre lama cuccioli al posto di partorire tre figli a distanza di due anni l’uno dall’altro. Il fastidioso risvolto dello sputo dei lama non sarebbe tragico quanto gestire, ammansire, controllare, custodire, sgridare, confortare, palettare, e chi più ne ha ne metta, tre figli dagli undici ai quindici anni. Ho sempre pensato che, una volta diventati grandi, le cose sarebbero diventate nettamente più semplici, che tre marmocchi vicini di età si sarebbero magicamente trasformati in tre ragazzini Disney style e che le mie rughe e i miei capelli bianchi non avrebbero subito un’impennata così rapida. Mi sbagliavo. Dei tre, solo uno non costa fatica e sangue in ambito scolastico, dei tre, solo uno può dirsi non ancora caduto nella rete della psyco adolescenza, dei tre, nessuno, pare avere a cuore la mia stabilità psico-fisica. Tre lama, indubbiamente, non mi costerebbero notti insonni gravate da un’agitazione che nemmeno quando mi svegliavo ogni mezz’ora per allattare. Tre lama, anche scagazzanti e sputacchianti, in un soggiorno senza comfort animaleschi, non comporterebbero un continuo e alienante pensiero. Tre lama, pur sputandomi in faccia a rotazione, sarebbero senza dubbio più amorevoli e comprensivi di tre adolescenti in piena crisi ormonale. Ricordo che mia madre, all’epoca sola e incasinata come pochi, teneva particolarmente all’andamento scolastico della Sottoscritta, risultando spesso più simile ad una versione lombarda e cicciottella della famosa Rottermeier. Forse è per questa reminiscenza che, ad oggi, sono così preoccupata ed esigente per la loro carriera di studiosi. So che non sono i voti a contare davvero, so che, chi prende otto in tutte le materie non necessariamente diventerà un uomo d’affari o una donna potente, così come so, perfettamente, che nemmeno chi ha alle spalle una carriera scolastica disastrosa, per forza di cose andrà in giro a commettere piccoli furti o a lavare i cessi dell’autogrill. Ma questo non mi fornisce alcun tipo di consolazione. Gli strumenti tecnologici in dotazione, parlo di registri elettronici, sono un attacco terroristico ai danni di madri e figli, un pressante e quotidiano alarm che garantisce, ai genitori, un controllo pressochè infallibile dei risultati, positivi e negativi, dei ragazzi, e ai ragazzi stessi, un incubo reale che, tuttavia, non gli impedisce, in alcun modo, di fare le stesse identiche minchiate che si facevano ai miei tempi, senza alcun tipo di registro elettronico. Raccontare una palla clamorosa per un voto brutto, omettere l’informazione, studiare giusto giusto per strappare un sei alla penna del prof, pompare un voto di merda tramutandolo in un voto accettabile, sostenere che una verifica sia andata male per tutta la classe, dire LA SO, quando l’unica cosa che si conosce davvero e bene è il titolo in cima alla pagina, sono cose che abbiamo fatto tutti. Certo, in epoche non sospette in cui, il registro era un bel librone su cui si scriveva a mano e che non veniva visualizzato da nessuno se non dal personale scolastico. La presa per il culo, la leggerezza nello studio, la faccia di merda di chi, colto in fallo, crede di farla comunque franca anche di fronte alla schiacciante evidenza, la nota presa per un comportamento che nemmeno una scimmia delle Cornelle, il cadere dalle nuvole di fronte ad una sgridata, sono tutte cose che mi fanno venire una tremenda voglia di lama. Il lama non parla, non discute, non recrimina, non deve studiare, non prende note, né brutti voti, non si dimentica di studiare o di raccontarti come è andata un’interrogazione per evitare di essere messo in castigo. Un lama sputa, e basta, forse fa anche i suoi bisogni in giro per casa, ma cos’è un cumulo di cacca da raccogliere con un sacchettino e una palettina più volte in una giornata, in confronto alla faccia di merda di tuo figlio quando, mentre gli stai facendo una paternale meritatissima, ti guarda come se fossi appena caduta dal cielo in sella ad un unicorno ? Per concludere, mamme di bambini piccoli, sappiate che, volenti o nolenti, convinte o non convinte, stanche o riposate, rimpiangerete i tempi delle caccole spiacciate sul divano, della pastina sputata sul seggiolone, dei pannolini rotanti, della tosse catarrosa, delle nottate da incubo totalizzanti due ore di sonno, dei capricci al supermarket, davanti a vecchiette inorridite, del vesti/svesti per una pipì che si poteva fare a tempo debito, del NO, a prescindere, delle fughe infantili in mezzo alla strada che vi costeranno ripetuti infarti, degli oggetti scagliati in ogni dove, dei giocattoli da raccogliere la sera, disseminati in ogni angolo, quando l’unico desiderio sarebbe quello di sdraiarsi e svenire. So che è dura, ma non avete un’idea di quanto sarà dura più avanti, quindi, sopportate e gioite, delle piccole meraviglie che ancora vi stringono la manina senza guardarvi come se foste delle stronze apocalittiche. Godetevi gli sguardi ammaliati, le coccole disinteressate, persino il MAMMA ripetuto miliardi di volte in sole due ore. E, nel caso in cui non siete ancora mamme, sappiate che un lama, vi salverà la vita.

C’è una commovente dignità…

C’è una commovente dignità in una donna straniera che allatta il suo bambino con una bic in mano e un quaderno su un banco. Siamo ad un corso di italiano per stranieri, siamo in un paese della Brianza, dove la maggior parte delle persone la domenica va a messa. Siamo in un paese industrializzato, ricco, per così dire, se la ricchezza si può valutare e determinare esclusivamente in termini di produzione e traffico. Siamo in un paese dove ancora la maggior parte delle persone vede gli stranieri come scomodi usurpatori che rubano il lavoro ai poveri italiani, che rubano, punto, protagonisti di storie di violenze e degrado. Siamo in un paese dove, da tempo, vent’anni circa, esiste un’associazione che, grazie a volontari che “spendono” il loro tempo, riesce a dare un piccolo contributo all’emancipazione ed alla “scolarizzazione” di esseri umani che hanno bisogno, voglia e desiderio, di sentirsi meno stranieri. C’è una commovente dignità in un mucchio di persone che, due volte la settimana, magari portandosi appresso bambini di svariate età perché non sanno come altro fare, armate di penna e taccuino, si siedono in una classe, come si faceva da bambini, per capire e imparare, a dispetto dei pregiudizi, dell’emozione, dell’ansia naturale da prestazione. Pochi giorni fa sono stata in Scozia e con il mio inglese dimenticato e assolutamente inutile, se non avessi avuto GrandePuffo a gestire tutto anche e per conto mio, non avrei saputo davvero come muovermi. Forse avrei saputo ordinare una birra e un panino, ma mi sarei sentita sempre e comunque fuori posto, giudicata, incompresa e poco abile. Ero una turista e, in quanto tale, comunque ben voluta e considerata. Altra cosa quando, volente o nolente, vivi in un paese che non è il tuo senza alcuna padronanza della lingua. La prima sera, una settimana fa, quando sono entrata a scuola e sapevo di dover insegnare ad un numero imprecisato di persone, avevo addosso una bella dose di ansia, preoccupazione, eccitazione, paura: di non essere all’altezza, di non riuscire a farmi capire, di non essere in grado di trasmettere nulla. Mi è bastato guardare negli occhi delle persone che aspettavano di entrare in classe per capire che la mia ansia altro non era che un piccolo granello nel deserto che si leggeva nel loro sguardo. Giovani, anziani, donne e uomini di mezza età, ognuno con una storia diversa alle spalle, ognuno accomunato dalla necessità di sentirsi meno straniero. La paura ha lasciato il posto alla commozione, al desiderio di poter davvero essere d’aiuto, di riuscire, realmente, a dare ad ognuno di loro, quello di cui hanno bisogno, quello che si aspettano di poter costruire. C’è una struggente dignità racchiusa in chi vuole diventare una persona migliore, indipendentemente da quali siano la sua nazionalità, il suo passato, il suo livello culturale e scolastico. C’è la dignità che ogni essere umano si trova in dotazione, quando e se ha voglia di usare quel poco di empatia e solidarietà necessari per fare parte di una comunità, qualsiasi essa sia. Ho sempre voluto fare la maestra e per un motivo o per l’altro non ci sono ancora riuscita, ma, ieri sera, per la seconda volta in due settimane, mi sono sentita orgogliosa di me e delle persone sedute davanti a me. Basta poco.

21 giugno…

C’è un posto magico dentro di me, dove stanno le cose belle, quelle che non si possono dimenticare, che vanno tirate fuori in quei momenti in cui hai bisogno della malinconia come medicina per l’anima. C’è un posto magico, dentro di me, dove stanno le cose brutte, quelle che si vorrebbero dimenticare, che non andrebbero mai tirate fuori, nemmeno nei momenti in cui la felicità è l’unico pensiero. In questo posto ci sei tu e se esistesse davvero la magia da lì ti tirerei fuori e ti prenderei per mano, per portarti a vedere quello che non hai visto, a sentire quello che non hai sentito, ad assaggiare ciò che non hai mai assaporato. In questo posto ci sei tu e se esistesse una giustizia divina, questo posto non ti avrebbe mai vista e saresti qui, con me, a vivere la vita che si meritano tutti. Tu sei un ricordo indelebile che nel tempo perde i contorni, un suono che non esiste più, quello della tua voce, un odore che mi ricorda il sambuco, il gelsomino, quando all’inizio dell’estate ne senti il profumo da lontano, e ti accorgi che finalmente è arrivata la tua stagione preferita. Sei quello che non c’è stato, quello che non è esistito, un miraggio sfumato che consideri un mito, che ti fa invidiare le sorelle, i fratelli, e ti fa rimproverare i Puffi quando si insultano, si accapigliano, chè non sanno la fortuna che hanno. Sei un pezzo di quello che ero e un pizzico di quello che sono, sei il fattore scatenante di un carattere mutato improvvisamente e divenuto un mix, tra il mio e il tuo. Sei una voce conosciuta in una giornata pesante, sei l’odore dell’asfalto bagnato dal temporale, d’estate, sei capelli rame e lentiggini, pelle bianca e un sorriso enigmatico, sei rabbia e amore, una pozione mai giunta al compimento, una linea spezzata tracciata con un pennarello dalla punta sottile. Sei un posto che mi attrae e mi respinge, un pensiero ricorrente, malsano, terribile, meraviglioso. Sei un punto lontano da tenere sempre vicino, un cuscino fresco, un campeggio di mille anni fa, giocando a fingere di essere straniere. E’ così difficile adattarsi ad una mancanza, vivere ogni giorno un’assenza senza poter fare nulla per colmarla. Non ci siamo capite in tempo, non ci siamo amate a sufficienza, in quel breve lasso temporale che ci ha viste vicine. Non c’è rimpianto, solo vuoto. C’è un posto magico dentro di me dove ci siamo io e te, oggi, che è il tuo quarantaseiesimo compleanno, sarebbe, per usare il tempo verbale più appropriato. In questo posto magico, come sempre, festeggiamo intorno ad un tavolo, vestite leggere e a fiori, sedute una accanto all’altra, e ridiamo, di risate stupide e divertenti, quelle che si fanno quando la mente è sgombra e il cuore pieno. Auguri vecchiaccia !

me compresa, ovviamente, nessuno escluso

Negli ultimi tempi, sempre di più per la verità, provo un odio smisurato per le chat di classe. Luoghi virtuali ove effettuare comunicazioni di servizio, chiedere info, ricevere documenti necessari alla normale vita scolastica dei figli, che, ogni giorno di più, diventano la sede spontanea e giustificata di malumori, recriminazioni, battaglie contro i mulini a vento, inadempienze, commenti sarcastici fini a se stessi, assenze prolungate che diventano d’un tratto presenza incomode e prevaricanti. Ecco, l’ho detto: io le chat di classe le eliminerei dalla faccia della terra, tornando alle care vecchie mail, ai fogli di carta o ancor meglio, alle conversazioni verbali, durante le quali si possa realmente vedere in faccia chi e come, senza i veli malcelanti delle parole scritte in wtsapp. Che poi, diciamocelo, alla fin fine le odiamo tutti ‘ste conversazioni scomode in cui la gente repressa e depressa mette l’astio anche di fianco alla faccina con il cuoricino. Cerco sempre di essere sincera e diretta anche in queste camere di virtuale conoscenza, e, infatti, finisco per essere antipatica ai più e per essere considerata quella che ha sempre da dire, su tutto e tutti. Vorrei essere capace di fare come fanno tanti, rispondere una volta sì e mille no, mettere un pollice giallo dopo una richiesta e una domanda lunga venti righe, oppure palesarsi ogni dieci minuti e viaggiare, come una banderuola al vento, di qui e di lì, a seconda di chi sia l’interlocutore, senza badare minimamente ad un minimo di presa di posizione personale. Le chat sviluppano nelle persone una smodata tendenza a manifestare opinioni altrui in luogo delle proprie, o, viceversa, opinioni proprie laddove richiesta una collaborazione generale di tutti i presenti. Abbandonare il gruppo: un sogno, scrivere per esteso quello che si pensa e come lo si pensa, davvero, senza filtri e senza timori: un desiderio da mettere nella lista per Babbo Natale. Per molto tempo ho praticato la modalità che mi muove normalmente, nella vita, ovvero dire se ho da dire e dire moderatamente se mi sembra il caso di non esprimermi apertamente. Oggi, adotto una tattica trasversale: un mix di apatia, indifferenza e sano senso dell’umorismo, che credo siano la tattica migliore per non farsi venire il sangue amaro e il fegato marcio. Sarebbe molto bello se, in un mondo fantastico e favoleggiante, tutti, al mondo, potessero avere in dotazione intelligenza, simpatia, sincerità ed educazione, ma credo sia più facile che Salvini vesta di rosso ed esponga al suo balcone di casa uno striscione recante falce a martello. Bandiamo le chat di classe, orsù, torniamo indietro nel tempo, aboliamo la libertà di parola a chi non è in grado di mettere insieme due lettere se non condite di supponenza, arroganza ed egoriferimento. Suvvia, dai che lo vogliamo tutti, dopotutto. Togliamocelo ‘sto sassolino dalla scarpa, schiacciamocelo ‘sto bubbone pieno di pus, guardiamoci in faccia e diciamoci, in pieno sole, che ci stiamo sul cazzo e che non è poi un grave problema. D’altronde di persone al mondo ce ne sono parecchie e l’essere stati infilati nell’escape room della chat di classe volenti o nolenti non è obbligo a diventare amici per la pelle. Sarebbe tutto davvero molto più semplice e snello e meno stressante se tutti facessero un passettino indietro, ammettendo le proprie pecche e ridendoci su, magari davanti ad un bel bicchiere di prosecco, così, per sfatare il mito dell’antipatia e ricominciare a vivere come si faceva una volta, salutandosi cordialmente da lontano. E’ divertente, e con questo concludo questa arringa contro la convivenza forzata, vedere come la gente tolga addirittura il saluto, quello reale, intendiamoci, a chi, in un paio di occasioni, ha reso “pubblica” la propria opinione senza arrogarsi il diritto o il dovere di essere né da meno, né di più, del resto del mondo, ma semplicemente esprimendo il proprio parere, educatamente e senza infierire né riferire. E’ ridicolo come, esercitando il proprio personale e lecitissimo diritto di avere un pensiero che possa anche differenziarsi da quello degli altri, si diventi subito scomodi destinatari di pettegolezzi, maldicenze e sguardi truci. Ecco, così vivrò, d’ora in poi, le chat di classe: una bella scenetta di Stanlio e Ollio su cui ridere di gusto della multi sfaccettata umanità, me compresa, ovviamente, nessuno escluso.