allora, usiamola….

Spesso e volentieri, diamo per scontate certezze che, non per tutti sono acquisite, consolidate. Essere padroni di una lingua, quella, per intenderci, parlata nel luogo in cui vivi, è sinonimo di sicurezza, la padronanza della stessa, seppure non sia la tua lingua madre, è garanzia di comprensione, in entrata e in uscita, di quello che il mondo ti propina, di quello che tu vuoi dire al mondo che ti circonda. Troppo spesso tendiamo a giudicare, ad additare, chi non appartiene al nostro vissuto, chi non viene dal nostro stesso ambiente, chi, costretto o per volontà, ha dovuto imbarcarsi, molte volte nel vero senso della parola, in avventure che l’hanno portato lontano da casa. Sentirsi a casa è un privilegio raro, un concetto su cui dovremmo tutti fermarci a riflettere. Avere un tetto sopra la testa e un letto in cui dormire non sono le uniche prerogative per il benessere di cui tutti, indistintamente, abbiamo bisogno. Lavorare, potersi mantenere, non sono le uniche mete a cui si aspira per stare bene e non soffrire. Non saper parlare bene, o non saper parlare quasi per nulla, la lingua madre del luogo in cui ci troviamo a vivere è uno svantaggio che crea ansia, preoccupazione, nostalgia, imprevisto, danno. L’ho già detto in questa sede, ho provato, poco tempo fa, la sensazione di inadeguatezza derivante dal non conoscere quasi per niente la lingua inglese. In qualità di turista non è stato poi un grande problema, santo google traduttore mi ha dato una grossa mano, GrandePuffo ha fatto il resto, garantendomi comunque, a prescindere dalla mia ignoranza, la possibilità di comprendere ed essere compresa. Non sempre le cose sono così facili, non sempre e non per tutti è così semplice e scontato. Immaginete di dover parlare con i maestri dei vostri figli, con il vostro datore di lavoro, immaginate di essere costretti a dover argomentare perché ne avete bisogno, estremo bisogno, immaginatevi con vostro figlio ammalato al pronto soccorso, immaginate di avere necessità di spiegarvi, nel dettaglio, di dover raccontare qualcosa di voi, non per il semplice gusto di conversare, ma per la reale ed improrogabile necessità di far sentire la vostra voce. E ora pensate a chi, questo giochetto, non lo fa per mettersi nei panni di, ma lo deve fare tutti i giorni, al supermercato, a scuola, al lavoro, per strada, in Comune. Come vi sentireste? Quale sarebbe il vostro pensiero? Quali emozioni muoverebbero il vostro animo? Empatia, questo cerco di insegnare ai miei figli, da sempre, con risultati non necessariamente positivi, ma con l’intento di trasmettergli un principio fondamentale. Quando incrociamo per strada una donna egiziana, cinese, marocchina, peruviana, senegalese, ci sentiamo superiori, e per certi versi lo siamo davvero, ma unicamente perché abbiamo a nostra disposizione strumenti più validi per farci capire, per capire chi ci sta di fronte. Le classiche frasi: starebbero meglio a casa loro, trovano concordi, credo, loro stessi per primi. A meno che tu non scelga volontariamente di trasferirti in un luogo che ami e che ti piace di più di quello in cui sei nato e vivi da sempre, non sentirsi a casa è una brutta sensazione che, penso, ti resta appiccicata addosso per sempre. Vuoi per la nostalgia della tua vera casa, vuoi perché non tutti provano ad accoglierti come avresti bisogno, diritto. Ogni lunedì incontro persone desiderose di imparare, di migliorare, di acquisire conoscenze indispensabili, per loro e per i loro cari, ogni lunedì vedo andare e venire persone di svariate nazionalità, età, sesso ed estrazione sociale, tutti accomunati dalla medesima necessità: sentirsi a casa. Ora non voglio fare la paladina della giustizia, ma semplicemente ricordarmi e ricordare che tutti hanno desiderio di stare bene, di vivere bene, di garantire sicurezza e cura ai propri figli, alle persone amate, tutti, senza distinzione alcuna. Fa specie vedere donne più grandi di me o ragazze molto più giovani, sedersi ad un banco imbracciando quaderno e penna, fa specie percepire il bisogno, l’urgenza, di fare un passo in più, di sentirsi parte di qualcosa, di acquistare consapevolezza e certezze. Fa specie soprattutto per il periodo che stiamo vivendo, per le frasi che aleggiano nell’aria e sui giornali, inneggianti ad una spaccatura che fa tristezza e che fa a pugni con il progresso a cui siamo arrivati, a cui aspiriamo. Insegnare ai propri figli l’apertura verso il prossimo è il primo passo per un’accoglienza necessaria e imprescindibile di cui, un domani, potrebbero avere loro stessi bisogno. Guardare, agli altri, con occhi puliti, è un principio che andrebbe impartito in qualsiasi ambito. Imparare a non godere delle difficoltà e delle mancanze altrui, è quanto di meglio possiamo fare per stare bene, per far star bene chi abbiamo vicino. Lo so che queste parole fanno tanto predicatrice di ‘sta cippa, ma credere in un mondo meno schifoso è così utopistico? Così fuori sincro? Ogni lunedì mi stupisco della forza d’animo delle persone che mi trovo di fronte, dell’orgoglio che leggo nelle loro parole stentate, nella tenacia con cui, due volte la settimana, magari con un codazzo di figli da far invidia alla Famiglia Bredford, si incamminano avanti e indietro, con l’intento di migliorare, di imparare. Abbiamo la fortuna di avere un’istruzione che ci permette di camminare a testa alta, di viaggiare e vedere il mondo, di intenderci ed intendere, e cazzo, allora, usiamola quest’istruzione e facciamola usare ai nostri figli, non solo per credersi superiori.