Riempire le crepe.

Un giorno è cambiato tutto, avevo 14 anni e di colpo sono diventata grande. Quello che è accaduto sa di storie tristi, di quelle storie che, quando le racconti, la gente ti guarda appena, con gli occhi pieni di compassione, oppure sgrana lo sguardo e carica di empatia ti fa domande, con la paura tangibile di farti male, senza sapere che sta facendo il tuo gioco. Perchè parlare della tristezza la fa dimagrire, sfumare, la rende così vera da poter essere quasi digerita. Come un pezzo di pane, rimasto in bilico in gola, che ha proprio bisogno di un sorso d’acqua per poter scivolare giù. E’ incredibile come un evento solo possa, di colpo, cancellare dalla memoria giorni interi, mesi, quasi che la la mente possa fare fare spazio per una cosa sola, perchè è così grande e terribile da avere bisogno di un vuoto intorno. Le non c’era più e la stanza, un tempo scenario di mille battaglie, rimbombava di un silenzio malsano. A riempirlo, la musica a tutto volume, il tubare dei piccioni, fuori, nel caldo fastidioso di un’estate nel pieno del suo corso. Non ho voluto nulla di suo, nulla che mi ricordasse che il tempo si era fermato e poi, come un treno alla stazione, era ripartito senza di lei. Continuavo a vivere, come nulla fosse, e la gente mi guardava strano, cercando e osservando, per cogliere il momento in cui sarei andata irrimediabilmente in pezzi. Mi stavo sgretolando dall’interno, ma fuori, ero ancora la stessa. A 14 anni la vita deve essere un fiume in piena, deve scorrere senza che ci siano grosse cascate ad interromperne il corso. Io allora ero un fiume impetuoso, mille cascate a formarne una, insidiosa ed enorme, che toglieva il fiato e aveva rovinato ogni cosa. La mattina, svegliarsi era come ammettere che non fosse cambiato nulla. La casa, vuota, il silenzio, a farla da padrone. L’armadio, dove ormai avevano preso posto solo i miei vestiti, mi guardava con aria di rimprovero, memore delle mille volte in cui aveco desiderato che lei scomparisse. Essere sorelle, a 14 anni, è un’ardua impresa, essere sorelle, ed essere completamente differenti, può essere davvero estenuante. Ma l’odio è fisiologico e desiderare di essere figlia unica non è sbagliato, è normale. L’ho capito molti anni dopo, quando ormai il senso di colpa aveva eroso la mia sicurezza facendo crescere in me un’ansia subdola che non mi ha più lasciata. Lei non c’era più e io ero viva, lì, a domandarmi cosa sarebbe accaduto se le avessi voluto più bene, se le avessi detto più volte che era speciale, per me. Se non avessimo litigato, in continuazione. Se non fossimo andate in spiaggia, quel maledetto pomeriggio d’estate. Chi mi conosceva davvero bene, vedeva in me farsi strada le crepe. Chi mi vedeva per la prima volta, scopriva una persona nuova. In Giappone, quando un vaso si rompe, lo riparano con oro e argento. I cocci vengono riattaccati l’uno all’altro, utilizzando i metalli preziosi, in polvere o liquidi. Si ottengono così oggetti diversi da prima, che assumono un valore nuovo, proprio grazie a quelle crepe aggiustate. Lentamente ho messo insieme i pezzi, aggiungendo qui e lì qualcosa di nuovo o qualcosa che, nel tempo, scoprivo essere parte di me. Non so se il risultato finale fosse ed è prezioso o di maggior valore rispetto a prima, ma so che è stato ed è faticoso ed estremamente difficile non abbandonarsi alla tristezza, al vuoto che l’assenza si lascia dietro. Sono passati mille anni da allora ma, ancora oggi, nelle cose che dico, nelle parole che penso, in quello che scrivo, c’è sempre un pezzetto di lei, una briciola di quell’estate, un granello di quella mancanza. Di quei giorni, a seguire, è rimasta una paura che spesso si fa largo e riempie tutto, rubando spazio al resto, invadendo i pensieri, inquinando la mente, sporcando di buio la felicità. In questo periodo è facile perdere di vista la bellezza, è così incerto quello che ci circonda, così strano quello che stiamo vivendo. La mattina, in questi giorni, rivivo i risvegli di quell’estate, quando, aprendo gli occhi, il primo istante, ero felice e viva e normale. Ma qualche secondo era ed è sufficiente per sentire quel peso sul petto, quel velo sugli occhi che annebbia tutto il resto e rende il paesaggio sfocato. Quando mi alzo riprendo in mano i cocci e cerco, nelle stanze, l’oro e l’argento per rimettere insieme i pezzi. Ho miscele speciali che mi aiutano e mi costringono a ricompormi, ogni giorno. Così apro gli occhi e comincio ogni giornata, e grazie a quell’oro e a quell’argento, ogni giorno è diverso da quello precedente e degno di essere vissuto, perchè nuovo e prezioso. E quando, un pochino mi rompo, cammino per casa e guardo i miei ori e i miei argenti e nei loro occhi, nei loro capelli, nei loro sguardi e persino nei loro difetti, c’è un pò di lei. Sempre.