Uanda

Da qualche tempo, complice il fatto che NonnaVolante abbia perso legalmente la facoltà di guidare la sua Pandina, la Sottoscritta si divide equamente tra la family car e la suddetta Pandina, con cambio automatico. Sono partita, come guidatrice, ormai mille anni fa, proprio da una mitica Panda30 color mattone alla quale, negli anni seguenti all’acquisizione della stessa, avevo applicato alle portiere dei meravigliosi fiori antisdrucciolo della doccia di colore bianco. Ero estremamente fiera ed orgogliosa della mia vettura e, sebbene fosse stata pagata davvero due lire, che all’epoca erano davvero lire e non euro, e cadesse a pezzi vistosamente, per me era paragonabile alla carrozza di Cenerentola. La mia mitica Panda mi portava ovunque volessi andare e, proprio a causa delle sue pessime condizioni, veniva utilizzata da tutta la compagnia per i più svariati utilizzi. Cani e affini erano ovviamente bene accetti, trattandosi di un’auto con davvero pochissime pretese di pulizia. Al suo interno la radio non esisteva e, per poter ascoltare dell’ottima musica, la Sottoscritta aveva installato, infilandola nel vano cruscotto davanti al sedile anteriore del passeggero, uno stereo di dubbia provenienza che, seppure messo a palla, non garantiva una corretta udibilità a causa del rumore dei vuoti di carburazione e della marmitta probabilmente bucata. Nonostante ciò, lo stereo continuava imperterrito a riprodurre musica rock ad un volume talmente alto che, quando ci si fermava ai semafori, la mia Pandina faceva invidia a qualsiasi tabbozzo di provincia dotato di casse mirabolanti. Uno dei principali difetti, via via che la “Uanda” si faceva anziana, era la copertura interna del tetto che, sgretolandosi, nevicava pulviscoli arancioni di imbottitura, su capelli, giacche e qualsivoglia genere di superficie a disposizione. Devo dire che, nonostante non fosse propriamente elegante andarsene in giro con dei pallini arancioni tra i capelli, anche la questione della neve in versione hare krishna, aveva il suo perché. In occasione di festeggiamenti abusivi in quel dei vivai del paesello, la Uanda era ufficialmente investita dell’incarico di carico e scarico di legname e vettovaglie. Utilizzata da una variegata gamma di amici, ha sempre fatto il suo dovere senza lamentarsi né arrancare. All’epoca, abitavo ancora in quella che si potrebbe definire alta Brianza, dal mio ameno paesino, partivo in pompa magna per recarmi in quello che, oggi, è il mio paese di residenza, ed allora era il luogo di ritrovo della nostra compagnia di squinternati. Sin dallo stradone comunemente detto Pagani, la Uanda avvisava tutti del mio arrivo, fedele e rumorosa come un carrozzone gitano. Non della stessa amorevole idea erano le forze dell’ordine che, ad ogni piè sospinto, fermavano con poco garbo la Sottoscritta per accertamenti di qualsivoglia genere, forse attirati, non benevolmente, dai fiori bianchi antisdrucciolo a me tanto cari. Patente e libretto, comunicavano seri i gentili carabinieri ad una ragazzina colpevole solo di possedere una macchina poco ordinaria. Non ricordo bene per quale motivo, ma quell’epoca, essere fermati dai carabinieri o da qualsivoglia genere di forza dell’ordine, non era esattamente motivo di gaudio, per la mia generazione, spesso e volentieri ci si sentiva stranamente sotto accusa o ancor peggio, colpevoli di qualche crimine. Ripeto, non ricordo assolutamente il perché. Grazie allo stato di conservazione abbastanza naif della Uanda, era cosa buona e giusta che io vi trasportassi, praticamente tutti i giorni, il mio adorato cane Moki, brutto come la fame e dolce come un barattolo di miele. Moki stava composto e tranquillo con le zampe posteriori sul sedile dietro e quelle anteriori appoggiate allo schienale dei sedili davanti, con il suo musino infilato tra i due poggiatesta e un alito talmente fetido da avere potere lisciante sui miei capelli afro. Perfetta appendice di un’automobile dal folklore discutibile, Moki era il mio compagno di vita, nonché l’inseparabile amico del cuore di tutti i tossici della Villa Reale, accanto ai quali si sedeva per ore e ore godendosi coccole disinteressate al profumo di thc. Uanda è stata per anni il simbolo del mio anticonformismo e del più totale menefreghismo nei confronti di obblighi e doveri, nei confronti di una società becera e arrivista che poco si adattava alle mie esigenze ed alle mie aspettative. Per dimostrarmi che anche lei abbracciava la mia filosofia di vita mezza hippie, ai tempi del mio primo impiego, ospitava sui sedili posteriori la peggio specie di eroinomani i quali, per l’inoculazione, cercavano un riparo sicuro e asciutto. La prima e la seconda volta sono morta di paura quando, andando a riprendere la Uanda per tornare a casa dal lavoro, la trovavo aperta e abitata dal Detlef (noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino) di turno, ma col tempo, resami conto che dopotutto non facevano nulla di male e non sporcavano nemmeno la già poco pulita Uandina, ho deciso che sì, avrebbero potuto tranquillamente farsi di quel che volevano sui sedili posteriori, purchè, al mio arrivo sgommassero all’istante. C’era un tacito accordo tra me e quei quattro scappati di casa, loro potevano usufruire di Uanda per una dose e un “viaggetto” e io avevo la facoltà di sbatterli fuori a calci in culo non appena toccavo la maniglia. I tempi andati, quasi quasi ho nostalgia anche di quei fantasmi dal colorito giallognolo e dai capelli radi che, emergendo come ombre dalla mia macchina, mi ricordavano che un riparo non si nega a nessuno, Giuseppe e Maria ne sanno qualcosa. La mitica Uanda e il dolcissimo Moki hanno, a distanza di poco, vissuto più o meno il medesimo epilogo, lasciandomi sola e costretta a fare un finanziamento per acquistare una fiammante Micra nera che, pur in tutta la sua magnificenza e luminosità di km zero, non ha mai occupato, nel mio cuore, nemmeno un quarto dell’amore e dei ricordi che Uanda si è guadagnata di diritto. Così, con un pizzico di malinconia per i tempi che furono, per i fiori bianchi antisdrucciolo, per Moki e persino per il suo alito mefitico, per i falò nei vivai, per i tossici della stazione di Monza, per la neve color mandarino sui capelli, per i carabinieri ed il loro inspiegabile vizio di fermarmi ogni due per tre, per la doppietta d’obbligo, per lo stereo e la musica ovattata dal casino prodotto dalla marmitta, per il posacenere sempre straripante di cicche, per i tappetini persi e mai ritrovati, per il bagagliaio pieno di schegge di legno, per il finestrino che ad una certa non si poteva più abbassare, insomma, per queste e mille altre cose che la prima mitica macchina porta con sé insieme al profumo dell’amata gioventù, rimpiango la mia Uanda, ora che, mi siedo ogni mattina sul Pandino di NonnaVolante riassaporando la piccolezza dell’abitacolo e la comodità di una macchinina tascabile. L’unico grosso problema che, per chi mi conosce bene, è per me davvero un tasto dolente, è che, né Uanda né l’attuale Pandina, hanno i sensori di parcheggio per la retro, quindi, occhio a voi e che Dio me la mandi buona.