Merlino vs la Sottoscritta

Odio le differenze di genere, in qualsiasi salsa, mi faccio promotrice dell’uguaglianza in ogni caso, proprio perché in essa vedo e trovo una ricchezza che non eguali, appunto. Mi rendo conto, però, in alcune occasioni, che la differenza c’è ed anche evidente. Ieri avevo due commissioni da fare, al volo mi caccio in macchina con un tempaccio che ha davvero scassato le palle, mi fiondo, nel mezzo di un traffico che sto imparando ad odiare, e cerco di raggiungere velocemente il più vicino Re Merlino, al fine di procedere con degli acquisti commissionati da PuffoMedio per il corso di arte che sta facendo. Mi servono una spatola, una latta di vernice bianca per muro e una tavola di legno 35×45. Re Merlino mi si para davanti in tutto il suo magnificente splendore “maschilista”. Entro, scarpino avanti e indietro con il mio tacco dieci, sentendomi un po’ figa, un po’ rock e un po’ inetta, a momenti altalenanti. Mi sento figa quando mi accorgo di essere l’unica donna non accompagnata da un uomo all’interno del negozio, fatta eccezione per una ragazza dall’aria spavaldamente “bricolage” e delle commesse/cassiere che sprizzano “bricoleria” da tutti i pori. Mi sento un po’ rock unicamente per l’outfit indossato, non certo per il mood psicologico dato che essendo notoriamente metereopatica, ho la stessa vitalità di una pianta grassa. Mi sento un po’, anzi, parecchio inetta, perché mi rendo conto di essere paragonabile ad un uomo abbandonato in un reparto di intimo femminile ad occuparsi dell’acquisto di una guepiere, o, ancor peggio, di un uomo abbandonato in un reparto di assorbenti in preda al dilemma infinito di quale sia la confezione giusta di “assorbenti viola con ali” commissionatigli dalla moglie/compagna/mamma/sorella/amica. Parto dalla vernice bianca per muri, accedo al corridoio denominato VERNICI, mi giro e mi rigiro, vedo vernici di ogni genere, dimensioni, peso, colore, smalti, brillantanti, anti muffa, stucchi, mi sento Homer Simpson davanti ad una confezione gigante di donuts vegani. Sono frastornata e al tempo stesso incerta e agitata, cerco di fermare un uomo ma mi accorgo troppo tardi che non si tratta del commesso, sto per rivolgergli la parola ma riesco a bloccarmi in tempo per non essere scambiata per una stalker, cerco il commesso che mi guarda come se gli stessi chiedendo di che colore fosse il cavallo bianco di Napoleone. Spiego brevemente la mia necessità, mi viene data una risposta breve, concisa e parecchio sommaria, sono punto e a capo. Mi giro e mi rigiro sempre nello stesso corridoio, incrocio un altro commesso, faccio mente locale sperando di non rivolgere la medesima domanda al medesimo commesso, noto che questo ha la barba e sono certa che quello di prima non l’avesse, ringrazio mia madre per avermi dotata di una grande memoria visiva. Pongo al secondo commesso la stessa domanda, spiegando, questa volta, un po’ più nel dettaglio l’esigenza, il commesso si dimostra leggermente più preciso, mi indica uno scaffale, fa riferimento ad una latta specifica, tuttavia non avvicinandosi allo scaffale in questione mi lascia comunque libera, o meglio, mi abbandona al libero arbitrio nella scelta della latta da acquistare. Ne prendo una che potrebbe fare al caso mio, vorrei baciare il commesso e nello stesso tempo sgridarlo un pochino, perché so di essere visibilmente confusa e se fossi stata al suo posto avrei preso la latta giusta dallo scaffale e l’avrei consegnata nelle mani dell’inetta in questione: le mie. Va bene lo stesso, la vernice sembrerebbe quella giusta, un po’ troppa per la verità, ma almeno non c’è scritto stucco o smalto, vernice è, bianca è, andrà bene. Passo alla fase successiva: tavola di legno misure 35x45cm, da lontano scorgo un’insegna che non è luminosa ma che ai miei occhi appare come un’oasi nel deserto per un assetato: FALEGNAMERIA. Mi introduco furtivamente nella sopracitata oasi, incrocio una ragazza, quella di cui parlavo all’inizio, si vede lontano un miglio che sa muoversi in questo marasma che mi confonde e mi turba, non voglio cadere nella trappola che mi tenderei in autonomia, non le chiedo alcun consiglio, mi dirigo nella sezione TAVOLE. C’è legno ovunque, troppo legno, troppo lungo, troppo spesso, capisco quasi subito che non troverò quello di cui ho bisogno, 35x45cm non equivale a 70x120cm, fino a qui posso arrivarci, nonostante da sempre le equivalenze mi lascino perplessa. Cambio reparto, o meglio, fingo di non avere bisogno di nessuna tavola e perlustro la zona attigua alla falegnameria, incappo in rubinetti, antine di mobili per il bagno, lucine di sicurezza, torce, nastri isolanti, portaposate in zinco, antiscivolo per tappeti. Mi accorgo di essermi spinta troppo in là quando, girandomi verso destra, noto un capannello di uomini, di svariate età, intenti ad osservare un altro uomo che maneggia un cacciavite che potrebbe essere Excalibur, probabilmente staranno tenendo un corso avanzato di manutenzione di ponti levatoi. Torno sui miei passi, devo aver percorso almeno un chilometro e mezzo avanti e indietro rivisitando gli stessi settori senza successo quando, finalmente, leggo una scritta che, pur non essendo luminosa, sembra, ai miei occhi, la Tour Eiffel in notturna: TAGLIAMO IL LEGNO … non ricordo sinceramente le parole esatte ma all’udire il suono di una sega elettrica credo di aver intuito che l’uomo barbuto (pure questo) in piedi davanti ad un banchetto, con la maglietta del Re Merlino, fosse il mio unico salvatore. Ho bisogno di una tavola di legno 35x45cm. Esordisco con malcelata sicurezza interloquendo con il commesso di Merlino che, forse gli impongono questa modalità, mi guarda con la stessa partecipazione emotiva con cui io guarderei una cimice in fin di vita. Di che tipo? Mi domanda mettendomi in una difficoltà che nemmeno quando devo girare il risotto e sono in un’altra stanza e sento l’odore del riso che si attacca alla pentola. Cosa intende esattamente con DI CHE TIPO? Domando a mia volta al commesso di Merlino che, a questo punto passa direttamente dall’indifferenza al disprezzo. Di che tipo di legno ha bisogno Sig.ra ? risponde con un’ulteriore domanda Merlino, che già che mi chiami Signora ed è palese che sei più vecchio di me mi fai incazzare anche se mi sento un’idiota da mezz’ora. Tentenno, sperando in un aiuto dal pubblico, in un intervento divino o semi divino, cazzo, San Giuseppe non era mica un falegname ? dove sono i Santi quando ne ha bisogno ? Effettuo una lieve circonduzione della testa sul lato destro, notando, con la coda dell’occhio che grazie a Dio non ha smesso di funzionare pur non essendo io molto presente al momento, un pannello salva-inetti con appiccicati dei quadrati di legno che fungono da esempio per tutti ma soprattutto per quelli che, come me, non hanno la minima idea di quali differenze ci siano tra un legno e l’altro. QUESTO, esclamo indicando un quadrato proprio al centro del pannello, misura 35x45cm, affermo, ormai vedendo la luce in fondo al tunnel. Merlino non risponde, si allontana, muove passi sicuri verso una pila di tavole enormi, ne afferra una con la stessa dimestichezza con cui io afferro bracciate di vestiti da Zara durante i saldi invernali, pone la tavolona che pare quella dell’ultima cena, in mezzo ad un macchinario enorme ed inquietante, taglia, come non ci fosse un domani, un pezzo di legno della grandezza esatta da me richiesta. Torna sui suoi passi dopo aver buttato con sdegno la restante parte del legno da me non richiesta in un cassone in cui giacciono altre povere tavole avanzate che, spero, avvolta da un’aura di empatia verso i suddetti derivati arborei, possa servire a qualche altra inetta in balìa di Merlino. Ringrazio ripetutamente il commesso, vorrei anche abbracciarlo ma credo che una tale dimostrazione di riconoscenza non sarebbe gradita, non in questa location. Faccio per andarmene tronfia e soddisfatta, recando in mano la tavola della misura perfetta, ma Merlino mi richiama indietro: Signora.. (ancora con ‘sta Signora…), ha dimenticato la bolla. Questa proprio non l’avevo mai dimenticata. Mi scuso per l’imperdonabile omissione di soccorso nei confronti della bolla, afferro la malcapitata e mi sparo nuovamente nel corridoio centrale. Ultima fase: la spatola. Direziono i miei passi incerti verso la sezione VERNICI, convinta che una spatola possa alloggiare esclusivamente nel reparto cugino. Ripercorro tutti i corridoi gremiti di latte, grandi, piccole, medie, colorate, opache, satinate, brillanti, anti muffa, anti acaro, anti donna. Della spatola neanche l’ombra. Cambio reparto, o meglio, mi fiondo nel corridoio centrale in cerca di un’ispirazione fulminante. Ispirazione non pervenuta. Giro in tondo ancora un pochino, fingendo clamorosamente bene di avere la situazione sotto controllo grazie ad uno sguardo interessato verso i cestoni al centro del corridoio il cui contenuto mi è conosciuto quanto la fisica quantistica. Nel frattempo infilo nel carrellino una lucina notturna crepuscolare, che regalerò ai Puffi per la loro cameretta avendo rotto la lucina in loro possesso proprio ieri. Quando mi rendo conto di sembrare Julianne Moore in Still Alice mi blocco e decido di chiedere aiuto. Non ho altra scelta. Torno nel reparto VERNICI, mi accosto al primo Merlino interpellato all’incirca un’oretta prima, domando sommessamente e timidamente dove potrei mai trovare una spatola di quelle non piatte ma con l’impugnatura. Guardandomi ancora più schifato della prima volta mi indirizza al reparto UTENSILERIA. Proseguo la via crucis del bricolage e mi fiondo verso la sezione indicatami da Merlino il simpaticone. C’è un intero scaffale di spatole. C’è l’imbarazzo della scelta. Alcune potrebbero essere usate persino per stendere il cemento della via in cui abito, avanzerebbe spazio. Osservo, vaglio, decido: punta tonda, media, impugnatura di gomma maneggevole. Tronfia e vittoriosa dichiaro chiusa e teoricamente portata a casa questa battaglia: la Sottoscritta vs il mondo del bricolage, alias Questo sconosciuto. La Merlina alla cassa mi odia, lo vedo, lo intuisco, lo sento. Il suo sguardo accusatorio mi brucia la pelle, sa che sono digiuna di qualsiasi nozione relativa al lavoro manuale, ma questa denigrazione non mi tange, ho sopportato ben di peggio in questo pomeriggio. Una cosa è certa: le differenze ci sono e sono sostanziali, per lo meno per quanto mi riguarda. Non pretenderò più che GrandePuffo acquisti assorbenti interni per mio conto, sarebbe vile, ma sono anche certa del fatto che, la prossima volta che metterò piede da Merlino, sarà unicamente per guardare delle femminilissime tende, per tutto il resto ci sarà GrandePuffo, altro che MasterCard. Ognuno deve essere conscio dei propri limiti ed andarne fiero.

la sorellanza

Oggi è il compleanno di una persona speciale. Lei, leggendo queste righe saprà che questi auguri sono per lei. Crescere insieme, quando le tue famiglie sono un po’ particolari, può dare luogo a tutta una serie di complicazioni che vanno al di là delle tue capacità di sbrogliare le matasse. Crescere insieme, quando spesso e volentieri le cose vanno storte, ti dà la possibilità di odiarti e amarti contemporaneamente, per poi decidere che amarsi è l’unica soluzione possibile, nonché quella migliore. Sapere di avere, sopra la propria testa, un porto sicuro a cui approdare, negli anni terribili e magnifici dell’adolescenza, è una certezza che non si deve dare per scontata, una garanzia di serenità che rende meno difficile qualsiasi cosa, anche la peggiore. Crescere insieme, passando da lanciarsi palline da tennis in faccia, sputarsi nei capelli, strattonarsi, a dormire nello stesso letto dopo aver guardato Beverly Hills il giovedì sera, confidarsi le intimità più agghiaccianti, scambiarsi i vestiti ogni giorno, pranzare e cenare insieme come se da quello dipendesse l’andamento della giornata, è quanto di meglio possa capitare ad una ragazzina di provincia. Sapere di poter contare su qualcuno che ha a cuore la tua felicità, è come avere un bastone tra le mani quando le tue gambe sembrano proprio non voler funzionare. Piangere lacrime amare davanti ad una tazza di camomilla annusando l’odore di casa tua, che in realtà non è veramente la tua ma è come se lo fosse, è come avere le chiavi di un paradiso sconosciuto, l’unico a cui vorresti fare ritorno, la sera. L’estate più calda, le finestre spalancate, la musica di Tozzi a palla, le scarpe abbandonate all’ingresso, le corse in bicicletta, gli appuntamenti ad orari stabiliti, le serate seduti sul marciapiede, a parlare di tutto e di nulla, le sigarette fumate a metà, di nascosto da occhi indiscreti, le litigate furenti, le giornate passate a sperare di sentire il campanello suonare, le riappacificazioni tra le lacrime trattenute a stento, le gite in motorino, in due, senza casco, i fidanzati, le magliette corte, i jeans della Levi’s, i ricordi d’infanzia, condivisi, gli zaini pieni di libri, la pasta con le polpette, la pastina senza sale, la sedia a dondolo di vimini, le sedute spiritiche che infondono un terrore senza pari, le prime bevute, le mamme che chiamano dal balcone, i primi lavori, la vita che ti allontana. Crescere insieme e perdersi di vista può essere la fine di un “amore”, perché così mi sento di chiamarlo. Crescere insieme e perdersi di vista è un naturale processo di vita che, in alcuni casi allontana anche dalla mente e dal cuore, in altri casi, in questo caso, nemmeno la lontananza e la non frequentazione riescono o sono riusciti a spezzare un filo che, seppure sottile e fatto di ricordi, resta impresso come un tatuaggio, indelebile e imprescindibile. Ci sono amicizie che si sfilacciano, che si sgretolano, come biscotti troppo cotti, altre, che resistono ai segni del tempo, ai capelli che sbiancano, ai figli che crescono, alle abitudini che si fanno differenti. Ci sono amicizie che sono sorellanze e che non risentono dei cambiamenti perché sono pagine di un libro che puoi sfogliare ogni giorno, una volta l’anno, ogni secondo, immutabili e sostanziose, un pezzo di qualcosa che fa e farà sempre parte di te, come un braccio, il naso, un dito del piede. Non puoi dimenticarti del tuo alluce, non puoi scordarti del tuo braccio, non puoi non vedere ogni giorno il tuo naso, allo specchio. Così sono queste amicizie, resistenti alle intemperie dell’esistenza, immortali, come i vampiri di Twilight. Per questo motivo, il 27 di maggio, non servono sveglie, appunti, non serve facebook, per ricordare che ci sei e che oggi, come ieri, siamo amiche, a dispetto di una vita che ha fatto il suo giusto corso. Perché quando conosci qualcuno da tanto tempo quanto stai al mondo (specificando che sei comunque più vecchia di me di qualche mese), un compleanno è una data che non ha bisogno di memory, ma solo di auguri speciali, come quelli che ci scambiavamo quando indossavo le tue magliette, quando abitavamo l’una sopra l’altra. La sorellanza non conosce luoghi, distanze, differenze, è lì, da sempre e per sempre, nonostante le palline da tennis negli occhi e gli sputi nei capelli. Auguri amica E. Buon quarantaduesimo compleanno.

costringere o lasciar correre?

C’è sempre una domanda che mi frulla in testa , alla quale do sempre una risposta diversa. Quanto è giusto insistere, con i propri figli, relativamente all’argomento SPORT ? Nasco come poco sportiva, sposata ad un super sportivo, amante dello sport in genere, runner accanito al limite della maniacalità. Cresco e faccio ogni genere di fitness casalingo, divento una mezza runner, abbandono per avversità muscolari, mi reinvento amante dello yoga e mi trasformo in una indefessa praticante giornaliera di un’ora intensa di yoga-fitness. Ma, al di là di questo, resto convinta che, lo sport, debba essere, innanzitutto, fonte di piacere, di serenità, e, ancor più importante, debba essere praticato sì, con una certa costanza, ma senza mai sfociare nell’accanimento, nel PER FORZA, nel A TUTTI I COSTI. Ovviamente su questo argomento, così come su parecchi altri peraltro, io e GrandePuffo abbiamo opinioni diametralmente opposte e, se aggiungiamo l’aggravante della comunicazione univoca da parte dei Puffi, di eventuali richieste di esenzione (ovvero destinate esclusivamente alla Sottoscritta), ecco che si scatena l’Inferno vero e proprio. GrandePuffa, da qualche tempo, ha deciso che non le interessa più andare a pallavolo, complice la necessità di studiare di più, in questo rush finale dell’ultimo mese di scuola, ha iniziato a saltare qualche allenamento. La Sottoscritta, tenera e paziente, ha tenuto le parti della ginormica adolescente ricordandole che l’impegno, in ogni cosa e in ogni ambito, è la base della “serietà” di una persona e di un intento. Le ho inoltre specificato, tuttavia, come sia, in questo momento, nettamente prioritaria la buona riuscita scolastica, giustificando, agli occhi di GrandePuffo, la sua defezione continua agli allenamenti. Inizialmente motivata dalla necessità di studiare per questa e quella verifica/interrogazione, la malavoglia di GrandePuffa si è espansa, sino ad arrivare all’ammissione di colpa: a pallavolo non voglio andarci più. Domanda spontanea: la costringiamo ? rendiamo sgradevole un’attività che dovrebbe essere unicamente piacevole e soddisfacente ? Secondo il parere di GrandePuffo questa sarebbe la soluzione ottimale nonché l’unica applicabile. Secondo il mio parere, ovviamente, cacciare con la forza un’adolescente ad un allenamento è una forzatura che non porta ad alcun risultato positivo, anzi. Il discorso SI E’ PRESA UN IMPEGNO E DEVE PORTARLO A TERMINE, fila alla perfezione, lo ammetto, ne sono cosciente e lo applico in qualsiasi altro ambito (corso animatori oratorio, scuola, ginnastica correttiva, appuntamenti vari..), ma in questo caso specifico, per quello che concerne una ragazzina della sua età, sono dell’idea che VOLENTE o NIENTE sia la soluzione migliore. PuffoPiccolo, sportivo ad oltranza e appassionato persino di badminton, in mancanza d’altro, baskettaro prima, ansioso e negativo ma mai disertore, rugbysta ora, con accentuarsi dell’ansia da prestazione e del panico da urto e contusione, ieri pomeriggio ha millantato un mal di pancia gravissimo, correlato di lacrime convincenti. All’uscita di scuola, con la mano destra sulla pancia alla Bonaparte de noantri, l’espressione del 2 novembre scolpita in faccia e lacrime copiose a rigargli le guanciotte, ha dichiarato di essere affetto da un grave mal di pancia, cacca molle e malessere generale. Effettivamente un pelino pallidino ha convinto la Sottoscritto di non essere particolarmente in forma, nonostante ci fosse in ballo un allenamento di rugby inaspettato con quelli del 2007, allenamento che lo lasciava perplesso da giorni, non rientrando nella norma a cui ha fatto il callo. Notoriamente rigido e affezionato alle consuetudini, a parer mio, questo allenamento fuori dagli schemi, lo disturbava non poco, forse addirittura recando seco uno psicosomatico dolore al basso ventre. Potevo io, davanti ad un pagnottone piagnucolante e pallido, affrontare codesta situazione con il randello in mano? O ho forse fatto bene a portarlo a casa e farlo svaccare sul divano al fine di risolvere il disturbo e risollevargli il morale? Dovevo forse indagare ulteriormente e costringerlo ad inforcare il paradenti a dispetto delle lacrime e della mano sul pancino? Ammetto che l’indisposizione, intorno alle 18, ha abbandonato il corpo di PuffoPiccolo, lasciandolo sereno e leggermente più colorito, facendo quindi propendere la Sottoscritta più per la versione magagnosa dell’episodio. Ciononostante chi mi dice che il mal di pancia, vero, una volta tranquillizzatosi e rilassatosi non sia passato fisiologicamente e che, pertanto, non si sia trattato di una mera bugia macchinosa ma di un reale verificarsi di smottamenti intestinali ? Ai posteri l’ardua sentenza. A voi, cari amici che viaggiano su queste pagine, la domanda che mi attanaglia ? Costringere e mantenere una linea dura, alla GrandePuffo, o lasciar correre, chè di palle da pelare ne abbiamo già parecchie, alla Sottoscritta style ?

Chiudete sempre la macchina!

Mi lamento sempre, un po’ come tutti, di avere troppe cose da fare, troppe cose che ricadono sulle mie poco robuste spalle, ma, pur lamentandomene, non faccio nulla perché la situazione cambi. Non delego, non rimando, non chiedo aiuto, a meno che non sia strettamente necessario, non rinuncio, non mi accontento, riempio la cucina di post-it, il cellulare di promemoria, la mensola di annotazioni, nel tentativo di arrivare a tutto e anche oltre. Mi lamento, e più mi lamento più mi carico di pesi, di doveri, di incombenze, di appuntamenti, di liste da cui depennare ogni punto come se ne andasse della mia stessa vita. Fatico a prendermi spazi nei quali tirare il fiato, con il risultato che il fiato mi manca per davvero. Ho tre figli e mi sento la direttrice di un’azienda sull’orlo del baratro, ho paura di dimenticare i pezzi, di non fare a tempo, di fare brutta figura, di lasciare indietro qualcosa, di non occuparmi come si deve di uno dei tre, di due dei tre, di tutti e tre. Rimugino sul da farsi, rimugino sul fatto, rimugino sul non fatto, in un perenne rincorrere me stessa e la mia ansia da prestazione, la mia mania di super controllo, la mia necessità che tutto sia perfetto. Divento pure antipatica, diciamola tutta dai, isterica, nevrotica, nevrastenica, mi incaponisco, mi trasformo in un essere anaffettivo con sommo dispiacere non tanto dei Puffi, ai quali dispenso comunque tutto l’amore di cui sono capace, ma piuttosto di GrandePuffo, che si ritrova di fronte, spesso e volentieri, una Franzoni in piena regola. Al culmine, di questi agitati periodi, che si presentano con sempre maggiore frequenza durando peraltro sempre di più, si aggiunge spesso la maledetta SPM, e allora, lungi da me chiunque abbia a cuore la propria serenità. Così, sperando che almeno con la fine della scuola possa rallentarsi un tantino questo ritmo psichedelico, faccio cose strane: ieri pomeriggio, parcheggio di fronte al bancomat, lascio i Puffi ad aspettarmi un minuto, attraverso la strada, aspetto la tizia che, prima di me, ci mette sette ore per ritirare due lire (sono giusto un pelo nervosa eh..), inserisco la tesserina, porto a termine l’operazione, ritiro il bancomat, ritiro i soldi che, puf, svaniranno nel giro di una mezz’ora scarsa come i petalini dei soffioni in primavera, riattraverso la strada, apro la macchina, mi siedo e.. scopro che non è la mia macchina. Scendo al volo, un po’ ridendo e un po’ guardandomi intorno per capire 1. Chi diavolo lascia la macchina aperta di questi tempi, 2. Se qualcuno e soprattutto il proprietario dell’auto su cui sono salita mi avesse visto. Corro, sui tacchi, quindi non proprio leggiadra, verso la mia vera macchina, salgo, chiudo la portiera e inizio a ridere, un po’ di gusto, un po’ isterica, un po’ anche preoccupata perché fin qui non ero davvero mai arrivata. Non riesco, per almeno un minuto, a fermarmi dal ridere come una cretina, lacrime agli occhi, i Puffi mi guardano come fossi pazza e un po’ mi sa che hanno anche ragione. Gli racconto, ridendo ancora, quello che ho fatto e per tutta risposta mi sento un bel MAMMA MA CE LA FAI, contornato anche delle loro risate. NON CE LA FACCIO NO, vorrei rispondere e ammettere e urlare, un po’ a tutti, a dimostrazione che non posso fare tutto, star dietro a tutto, far fronte a tutto, senza diventare un po’ folle. Bene, da qui posso solo risalire, giusto ? E comunque, state attenti a chiudere le macchine, potreste trovarmici dentro preda di un attacco isterico-demenziale.

Gruppo di scarico

“Io penso che rimuginare è bello, quei conti che ti fai in testa prima di alzarti, quando non devi saltare giù dal letto inseguita dal ritardo, rimuginare è il carburante perfetto per diventare una persona migliore” Leggo questo libro di Lidia Ravera, “L’amore che dura”, e annoto in continuazione frasi e pensieri, ritrovandomici come non capita spesso, leggendo. Rimuginare è un’attività prettamente femminile e non sto facendo della discriminazione, tutt’altro, credo che la mente maschile sia molto più semplice e dia luogo a meno “menate”, rispetto a quelle che sono abituate a farsi le donne, un po’ su qualsiasi cosa, a prescindere. Rimuginare è correre dietro ai pensieri rendendoli sottili o spessi, a seconda di quali essi siano. Passare, da un pensiero all’altro, attorcigliarli, in un groviglio complicato nell’intento di snellirli e appiattirli e, perché no, anche eliminarli per sgombrare la mente, ogni tanto. Rimuginare serve a fare liste, a spezzare lance in nostro favore, convincendosi di essere sul pezzo o allarmandosi riconoscendo troppe incombenze ancora da spuntare, in quel TO DO mentale che ci attanaglia. I soldi della gita, il pranzo al sacco, la lavatrice da stendere che aspetta nel cestello da ieri sera, le scarpe di rugby da lavare, la carne da scongelare, il libro da restituire, il regalino da scegliere e comprare, la sessione di yoga, la partita di pallavolo, la lettera da consegnare, quella cosa che ti sei dimenticata per ben tre volte e anche oggi dimenticherai, irrimediabilmente, l’apparecchio da lavare, le camicie da stirare, i vestiti da indossare, un turbinio di voci non ancora spuntate. Rimuginare è scendere a patti con sé stessi, rimediare agli errori commessi, archiviarli, come commessi e ormai caduti in prescrizione, trovare una soluzione ai problemi di tutti i giorni, considerandoli per quello che sono e non ingigantendoli come spesso accade quando si sommano a tutto il resto. E’ capirsi e capire, se davvero vale la pena crucciarsi e prendere decisioni repentine, che hanno il sapore amaro della bocca dopo una notte di sonno. E’ tirare le somme e incasinarsi ancora di più, quando non hai dormito bene e l’umore è già nero, anche se non hai ancora aperto gli occhi. E’ concludere ragionamenti già incancreniti dal tempo e dargli quel calcio nel culo che si meritano per averti disturbato per troppo tempo. Rimuginare è soffermarsi su malesseri bypassabili che bussano la porta in continuazione e diventano pensieri che prendono fissa dimora senza nemmeno pagare un affitto. Rimuginare, ultimamente è voti scolastici e doveri, desideri disattesi, molestie psicologiche che ti autoinfliggi da decenni e che sarebbe anche ora facessero le valigie. Tu pensi troppo, mi dicono a volte. E torna il leit motiv, il desiderio di essere un po’ bovina, non fisicamente, ci mancherebbe, quanto spiritualmente, per smettere, almeno per un po’ di masticare ansie e preoccupazioni, e tornare a rimuginare solo la mattina di alcuni giorni lenti, quando non hai null’altro da fare che guardarti un po’ intorno, scoprendo piano piano se dalle persiane filtra il sole oppure no. Tornare ad aggrovigliare pensieri sparsi solo quando somiglia ad un gioco e non ad una rincorsa noiosa e disturbante. Tornare ad intessere maglie spesse di riflessioni solo se e vale la pena davvero, non per guastare qualcosa di già guasto. Sarò capace? Mi domando. Capace di mollare, di delegare, di sfoltire, di non badare, di lasciar correre ? dubito fortemente, purtroppo, ho una testa di ricci meno arruffati delle considerazioni che vi alloggiano. E, nella riflessione, la riflessione: anche voi pensate troppo ? Se facessimo un gruppo di scarico dove in un grosso contenitore poter buttare ansie e affanni, scervellamenti e congetture ?

Non è più un bambino

Ieri sera la squinternata famiglia è tornata al completo: PuffoMedio è rientrato da sei intensi giorni di gemellaggio in Rep. Ceka. Entusiasta, di ogni piccola cosa, come solo lui sa essere, felice, di aver trascorso del tempo “da grande”, lontano da casa, dalle abitudini e, perché no, anche dalle costrizioni tipiche di una famiglia normale che, una volta varcata la soglia di casa, diventano dogmi scritti nella roccia, da decidere se bypassare o tenere bene a mente, a seconda di quale sia la situazione. Ha mangiato poco o niente, non ha fatto la cacca per cinque giorni consecutivi, ha ingurgitato quantità abnormi di bibite gassate, con sommo suo piacere e indubbia sopportazione di chi, standogli intorno, ha dovuto “godere” dell’effetto degli zuccheri sulla sua già conclamata vivacità. Ha comprato regali per tutti, compresa la mitica ZiaC., regali bellissimi, non solo per la qualità effettiva degli stessi, ma più che altro per quello che significano, per il pensiero che sta in ognuno di essi, per quelle frazioni di secondo durante le quali siamo stati nella sua mente. Ha visto, visitato, assaggiato, le sensazioni meravigliose dei viaggi, dell’essere sopra ogni cosa, tipica della sua età in cui, le preoccupazioni devono stare debitamente lontane. Ha dormito, chiacchierato, utilizzato un cellulare che, per la prima volta nella sua vita, gli è stato concesso, principalmente per evitare che si perdesse, questa volta in terra straniera. Ha fatto nuove amicizie e consolidato quelle già esistenti, in un turbinio di pressante adolescenza che, a volte me lo fa odiare a morte e, altre volte, amare alla follia. Mi ha abbracciata, puzzoso di viaggio, di teenager, di aereo, di pullman, pervaso da una gioia di vivere che non è sempre così scontata ma che, per lui, è normale routine. Siamo rincasati, soli, e, guardandomi mi ha ricordato che gli sono mancata tanto, soprattutto io e, il mio cuore di tipica mamma italiana, ha avuto il classico sussulto emozionale che deriva dal sentirsi uniche e insostituibili, più forti, anche se in minima parte, persino della sete di avventure. Lo farò anche l’anno prossimo mamma, ci ha tenuto a farmi sapere mentre sorseggiava un the davvero buonissimo (parole sue) e addentava una brioche, guardando un po’ me e un po’ un cartone animato demenziale. Ha sopportato le mie domande, le mie richieste, ha accettato di buon grado il ritiro già peraltro concordato del cellulare, mi ha illustrato lo stato della valigia, facendomi notare come fossero ben piegati persino i vestiti sporchi. Ha sfoggiato la sua proverbiale, spumeggiante e cristallina vitalità, correndo su e giù dalle scale di casa e aiutandomi a sistemare il sistemabile. Ha fatto una doccia medio lunga, si è lasciato asciugare i capelli, miracolosamente senza proferire verbo, e ha infilato il suo corpo magro e nervoso sotto un piumino fresco di bucato. Mi sto già addormentando, ha urlato dalla sua camera alla mia, in attesa di essere “messo a letto” come di consueto. Mi ha baciata, con quel suo fare da cane cucciolo che se sei di buonumore è estasiante e, al contrario, se sei di fretta o con le balle in giostra è fastidioso ai limiti della molestia. Ha sussurrato: che bello il mio letto e ha chiuso gli occhi, su una giornata impegnativa e stancante. Non è più un bambino ma resta senza obiezioni il mio bambino, quello che si sveglia con il sorriso, che si impunta per delle stronzate, che inventa frasi e parole e gesti, a suo uso e consumo. Non è più un bambino ma averlo, di nuovo, a casa, è un pezzettino di felicità in più a cui non si può proprio rinunciare.

Lo schiocco di Thanos

Adoro il mare e amo starci a mollo, la frescura delle sue acque è una manna dal cielo nell’arsura estiva. Adoro l’acqua e pur avendola temuta per anni, intuisco tra me e lei una confidenza che non sa più di paura. Leggo, oggi, dell’ennesima nave tratta in salvo, a bordo donne, uomini, bambini, piccoli, molto piccoli. Mi chiedo se un giorno avranno a cuore il mare o se lo temeranno, in ricordo di un viaggio che non ha a nulla a che vedere con la volontà, con il piacere. Quando saliamo su una nave, su una barca, quando ci tuffiamo nel mare, d’estate, non possiamo nemmeno immaginare cosa significhi trovarcisi nel mezzo, a metà tra il posto conosciuto da cui stiamo fuggendo e un posto sconosciuto al quale abbiamo vitale necessità di approdare. Quando guardiamo le nostre mastodontiche navi in attesa che ci imbarchino per mete estive alle quali aneliamo come gli assetati l’acqua, sappiamo che abbiamo prenotato a gennaio, per non spendere troppo, perché andare in vacanza è un bisogno che richiede, per essere soddisfatto, un dispendio di denaro non indifferente, per quanto ci sforziamo di risparmiare. Sappiamo che sarà dura affrontare nove ore di navigazione, ma abbiamo chiaro in mente l’obiettivo: Noi andiamo in vacanza. C’è una sostanziale differenza tra uomini e bestie: l’empatia e forse, capita che le bestie ne abbiano comunque più di noi. C’erano due donne gravide sulla nave che qualcuno vorrebbe rispedire al mittente. Sono stata gravida tre volte, so che un viaggio della speranza, in mare aperto, senza un letto, un bagno, magari senza acqua a sufficienza, non è esattamente quello che ti prescriverebbe un ginecologo. C’erano due donne gravide sulla nave che qualcuno vorrebbe non esistesse e non fosse un nostro problema. Sono stata gravida tre volte e non ho mai dovuto scappare da casa mia con il pancione, il mal di schiena e la paura che tutto possa finire in un incubo. C’erano due donne gravide sulla nave che sicuramente non ha i comfort a cui siamo abituati e che diamo per scontati, spesso dimenticandoci della fortuna che non riconosciamo nemmeno più… non ne conosco i nomi e non m’importa, non è necessario dare un nome alle cose per provarne pena, compassione, per sentirsi solidale. C’erano due donne gravide sulla nave che qualcuno farebbe volentieri saltare per aria continuando a dormire sonni tranquilli, e sarebbe compito di tutti farsi carico di tragedie fuori sincro, in un mondo in cui va tutto veloce, in cui i robot fanno per noi lavori che non vogliamo più fare, in cui tutto è diventato semplice e a portata di mano, sarebbe bene per tutti ricordarsi che anche solo pensare di lasciar morire qualcuno è a tutti gli effetti un omicidio, anche se non portato realmente a termine. C’erano due donne gravide sulla nave che è stata tratta in salvo, Dio grazie, donne che indubbiamente non sono nate per questo, ma, come noi, per una vita che ogni giorno dovrebbe essere migliore di così. C’erano due donne gravide, sulla nave in cui erano stipati esseri umani che non hanno nulla di diverso da ciascuno di noi, se non la colpa di essere forse nati in mezzo a una guerra. C’erano due donne gravide, sulla nave che potrebbe portare ognuno di noi, se solo non avessimo la fortuna di un tetto sulla testa, uno stipendio in banca e armadi colmi di vestiti che nemmeno indossiamo. C’è una sostanziale differenza tra uomini e bestie: l’empatia e forse, capita che le bestie ne abbiano comunque più di noi, perché quando non troppo lontano da noi si consumano drammi a cui ormai abbiamo fatto il callo, a me viene da pensare.. Mi viene da pensare come sia possibile che anche solo una persona tra tutte le persone che abitano il mondo, possa realmente non avere a cuore il destino di un simile. Con la tecnologia di cui siamo dotati, sarebbe “bello” e credo anche utile, sottoporre tutti ad una simulazione e vedere, a quel punto, cosa ne verrebbe fuori. Forse aveva un pò ragione Thanos in Infinity War, sarebbe una soluzione: schioccare le dita per eliminare metà della popolazione, per salvare il pianeta dalla rovina… Avrei una mezza idea di quale metà farei dissolvere allo schiocco se solo esistessero le gemme di Thanos..

Un piatto di spaghetti di soia

L’amore è davvero un mistero insondabile. Quando sei bambino credi che il vero amore sia un panino alla Nutella, una Barbie nuovo di zecca, il tuo orsacchiotto sgualcito che ti aspetta sul cuscino, la sera, per proteggerti dai brutti sogni. L’amore vero, da piccoli, è guardare all’insù e scoprire, ogni minuto, che la mamma è grande e ferma, solida, come un porto a cui approdare, senza ansia né paura. Basta spostarsi, di qualche anno, per riconoscere il battito accelerato in un viso conosciuto, la mattina, alla fermata dell’autobus che ti porta a scuola, fa nulla se quel viso non ti degnerà di uno sguardo, non è necessario che l’amore sia a doppio senso, basta un senso unico alternato affinché le guance si arrossino. A tredici anni vedi l’amore in una corsa sfrenata in bicicletta con gli amici, il sabato pomeriggio, in una partita a Fortnite giocata all’ultimo sangue, in una no-stop a Gardaland, su e giù dalle giostre più adrenaliniche. L’amore è fremito e paura, gioia e incertezza, simbiosi e affanno. Passano i giorni, i mesi, e l’amore è lì, nell’uomo che incontri e che ancora non sai sarà l’uomo che ti starà accanto nei giorni più importanti, nei momenti più difficili, quello che ti terrà per mano nelle scelte che ti sembreranno cambiare per sempre il corso della tua vita. L’amore è il suo profumo sulla maglietta con cui ha dormito la prima notte che siete stati vicini, nello stesso letto, è il vento in faccia in motorino, in due, senza kasko, è la prima cena ad un tavolino scalcinato di un Mac Donald’s di periferia, ad imboccarsi patatine rancide con gli occhi a cuore. E’ l’odore della vernice azzurra che colorerà la vostra prima casa, il fruscio dei sacchetti della spesa all’Esselunga, mano per mano a tenere un carrello che va sempre storto. E’ uno scatolone dell’Ikea accatastato ad altri scatoloni in mezzo al soggiorno, è il set di pentole regalo della zia che non vedi da un decennio, è la scritta incisa sulla fede che un giorno porterai al dito, è il tubetto del dentifricio schiacciato a metà che, dopo qualche anno, ti farà incazzare come non pensavi avresti mai potuto incazzarti, è il vestito bianco appeso nella vostra camera, simbolo di qualcosa da cui non si dovrebbe tornare indietro, è la tavolata di amici sempre pronta ad essere allestita, il sabato sera, è il rumore della bottiglia di birra stappata la sera, prima di cena e bevuta fianco a fianco con le schiene appoggiate al mobile della cucina. L’amore è il cuscino sgualcito, la mattina presto, dove ancora vedi l’impronta della sua testa, è litigare, la sera tardi, e piangere per non aver fatto pace prima di addormentarsi, è la paura che un giorno, nel futuro che non conosci, quell’impronta non ci sia più e il bisogno di far sì che resti sempre così, ogni mattina, per tutti i giorni della vostra vita. L’amore si cela dietro una decisone presa all’improvviso, quasi per caso, per scherzo, un attimo che incastrerà per sempre ogni vostra fibra. L’amore è un bagno illuminato dalla luce del sole, una sigaretta fumata alla velocità della luce, il tuo cuore che batte come mai prima, il suo sguardo allarmato, innamorato, sorpreso, straordinario. L’amore è vedere la propria donna con occhi diversi da un giorno con l’altro, sapere di non essere più soli, sentire un battito che ti cresce dentro, scoprire che non sarai più sola, sentire ali girare senza sosta nella tua pancia. L’amore è fare la maglia sul divano, accanto ad un’amica, con una pancia enorme che ti trasforma in un essere strano e miracoloso. L’amore è diventare tre, poi quattro, poi cinque, arrabbiarsi, non capirsi, ritrovarsi e riperdersi, cambiare, migliorare, stare fermi, quando tutto si muove, per il solo gusto di far incazzare. L’amore è prendere decisioni in due, non voltarsi indietro, imparare dagli errori, anche da quelli non commessi, è sentirsi soli in mezzo a mille, sbagliare e cadere, guardarsi e piangersi addosso lacrime di rancore, svegliarsi, la mattina e guardare un’impronta che certi giorni vorresti non ci fosse. L’amore è avere bisogno di lui pur non rendendosene conto, è sentirsi sollevati quando rientra a casa, la sera, anche se ha una faccia da schiaffi che a schiaffi lo prenderesti e ti prenderebbe pure lui. L’amore è ridere insieme di una frase del cazzo, conoscere a memoria ogni angolo del suo corpo e notare le differenze che il tempo sta inserendo in un quadro che ricordi nei minimi dettagli. L’amore è non dirsi nulla, che tanto non serve. E’ accettare pregi e difetti e odiarli, contemporaneamente e indistintamente e terribilmente, perché così vanno le cose. L’amore è consigliarsi e poi non ascoltarsi, in un gioco di ruoli consolidato che smonta e rimonta le cose ogni giorno, come fosse il primo. E’ non sentire più le farfalle, non perché siano andate via, ma unicamente perché sono nascoste dietro un’abitudine dura a morire. L’amore è sapersi volere bene, a dispetto di tutto, e ogni tanto ricordarsi di ricordarselo. L’amore è l’ansia che ti prende quando i tuoi figli sono lontani, il desiderio spasmodico di un futuro tranquillo, la paura di aver commesso errori che ancora non riconosci, l’amore è svegliarsi da un brutto sogno e tirare un sospiro di sollievo, che tutto quello che hai di caro è nelle stanze accanto alla tua. L’amore è un messaggio di buonanotte di un figlio di mezzo pazzo e sconclusionato che ha comprato un cavatappi orribile e te lo mostra in foto con l’orgoglio tipico di chi si sente finalmente grande. L’amore è aprire un registro elettronico sperando di non trovare brutte sorprese. L’amore è una cena a tre in un ristorante cinese da cui uscirai puzzolente di fritto, le chiacchiere tra genitori e figli, le risate e le confidenze, è darsi il bacio della buonanotte e considerare conclusa un’altra bella giornata. L’amore è quello che non riesci a spiegare, quello che ti fa agire d’impulso, che ti fa credere in qualcosa che non vedi ma che sai già di avere tra le mani, qualcosa di cui spesso ti dimentichi, fino al momento in cui non ti fermi un secondo a fare il punto della situazione. L’amore non ha sempre la A maiuscola, anzi, a dirla tutta, spesso inizia con lettere che non hanno nulla a che fare con quella A che tutti, senza eccezioni, sogniamo da sempre. Somiglia di più ad una O, intransigente ed insidiosa, o a una N, a cui ci si abitua spesso. L’amore è tutto e niente, a secondo dell’angolazione da cui lo si vuole osservare, cosa che dovremmo fare continuamente, per non farlo diventare scontato e banale. L’amore è fastidio e noia e odio e ansia e litigio e incomprensione, molto più di sovente agisce in sordina e al contrario, smuovendo corde addormentate che dovrebbero restare tali. L’amore è l’amica di una vita che ti aiuta a spazzare una sala zozza di pop corn, che ti tiene l’ombrello e si carica di pesi non suoi, che ti invia foto di un bambino sorridente accanto al suo viso sorridente, perché sa che l’amore sta lì, nelle piccole attenzioni, nel ricordarsi sempre un pochino, nel cercarsi anche quando l’altro non fa altrettanto. L’amore è un piatto di spaghetti di riso: complicato, piccante, scivoloso, pieno e vuoto, delizioso, unto di storie e ricordi, da mettere da parte e da costruire, ancora e ancora, senza smettere di meravigliarsi, nemmeno delle piccole, stupide, inutili quisquiglie.

Ore in omaggio cercasi

Quando hai più di un figlio la giornata sembra non avere mai fine e, nello stesso tempo, sembra essere dotata di meno ore di quante una madre necessiti. Quando hai figli molto piccoli servono ore per recuperare il sonno, ore per preparare le pappe, per allattare, per riempire e sanificare i biberon, ore per pulire la casa che pare sempre il set cinematografico di un film distopico sui disastri naturali, ore per renderti presentabile ed apparire meno terrificante di Crudelia in preda ad un attacco di nervi, ore, ore e ancora ore. Quando i figli diventano grandi e per grandi intendo pre adolescenti e adolescenti servirebbero ore in più, certo, di psicoanalisi. Quando poi, hai più di un figlio e tra essi si annida un Arnold che una ne pensa e cento ne fa, le ore necessarie sarebbero centinaia, ma no, cosa dico ? migliaia, per recuperare il senno ed il sonno. Ieri pomeriggio, di ritorno dal lavoro, in pensiero per le mille incombenze e faccende da sbrigare in vista della partenza di ben due dei tre Puffi, mi sono avviata a recuperare PuffoMedio dalla Mitica ZiaC. Piena di buoni propositi e convinta che, visto l’arrivo delle due adorate amiche londinesi Z. & A., avremmo trascorso un piacevole e divertente paio d’ore tutti insieme, ho dovuto ricorrere a tutta la pazienza e la diplomazia in mia dotazione e chiederne in prestito metaforicamente a tutta la popolazione del paesello, per evitare di eliminare, definitivamente, il mio figlio di mezzo. Notoriamente agitato, stralunato, ipercinetico, artistoide al limite della follia e pericoloso, alla pari di un furetto fatto di crack, PuffoMedio aveva forse tenuto in serbo, ovviamente e grazie a Dio, involontariamente, una delle migliori performances sinora fornite dalla sua mente diabolica. In ansiosa prepartenza per il gemellaggio con la Repubblica Ceka, PuffoMedio ha ben pensato, alle quattro del pomeriggio precedente la partenza, di smarrire il proprio portafoglio contenente tutti i documenti di identità a lui intestati, chiaramente obbligatori ai fini della partenza stessa. Un epilogo felice ha visto la Sottoscritta bere uno spritz volutamente annientante alle ore 19.00 di un pomeriggio/giornata che ha avuto dell’infernale. Dopo aver setacciato l’intero paesello, in macchina e a piedi, ripetutamente, dopo aver rovistato in tutti i cestini dell’immondizia nel raggio di almeno tre chilometri, dopo aver mobilitato l’amica C., i vigili, il responsabile del gemellaggio, almeno tre impiegate del Comune, il comando dei Carabinieri, le amiche Z. & A., nostro Signore Dio Padre, mentalmente e in svariate salse, GrandePuffo e forse anche qualche divinità indù, abbiamo ottenuto il rifacimento della carta d’identità smarrita senza la quale, PuffoMedio, non avrebbe potuto partire. Perdere un oggetto non è un gesto volontario, infilare un portafoglio contenente i documenti in una taschina scalcinata aperta di un giacchino che viene sventolato come un bandierone di Formula Uno per un percorso di cinque minuti allungato a quaranta minuti e pertanto assolutamente privo di senso di ritorno da una giornata scolastica, è un gesto volontario che ha fatto rischiare, a PuffoMedio, di essere polverizzato da una Sottoscritta che ancora non si era ripresa dallo smarrimento dell’intero PuffoMedio a Venezia occorso nel mese di marzo. Perdere un documento il giorno prima di una partenza per l’estero, a tredici anni, non è una colpa grave, lo riconosco, chi di noi non ha mai perso nulla, nella propria vita ? Dunque, a conti fatti, è successo molto e non è successo nulla. Siamo riusciti a far partire un PuffoMedio mortificato, a ragione, e sono riuscita a non ucciderlo anche se avrei tanto voluto, davvero, nel corso di tutto il pomeriggio di ieri. PuffoMedio è un miracolato, che deve la sua attuale presenza in questo mondo solo alle amiche Z. & A. che hanno stemperato la tensione e l’hanno tenuto ad una debita distanza dalla Sottoscritta sino alla conclusione, felice, degli accadimenti, onde evitare che la partenza fosse possibile ma in comodi vasetti contenenti solo alcune parti, ben frammentate del suddetto tredicenne. Dunque, a conti fatti, oggi, che due su tre, dei Puffi, sono assenti da casa per qualche giorno, la Sottoscritta ha bisogno di almeno venti ore di sonno, due ore di pizzo tombolo in solitaria, quatto ore di scrittura creativa, tre ore di bagno in olii essenziali della Dalmazia, sette ore di massaggi shiatsu intensivi, quindici ore di seduta psicoanalitica con Freud in persona, un’ora di cena a base di piatti tipici thailandesi e tre ore di yoga per rielaborare la tensione di ieri traendone notevole vantaggio tramutandolo in energia positiva. Per un totale di ore 55 da gestire in totale libertà. Ora quindi, qualora qualcuno avesse la possibilità e/o la facoltà di moltiplicare le ore, beh, si faccia avanti e dia una mano ad una Sottoscritta sull’orlo dell’esaurimento nervoso.

Anna di Frozen..

I figli, si sa, oltre ad essere piezz’e core, sono la spina nel fianco di ogni genitore. Trovatemi un figlio che non abbia mai fatto incazzare, preoccupare, intristire, almeno una volta nella vita, i propri genitori, e giuro che vi faccio le pulizie in casa gratis per un anno intero. Grandepuffa, fino a settembre, ha fatto vedere i sorci verdi, soprattutto alla Sottoscritta, relativamente all’argomento studio/impegno scolastico. PuffoPiccolo, da sempre lievemente quadrato, costa alla Sottoscritta sedute di psicologia di base per insegnargli, prima del compimento dei diciotto anni, che la vita è densa di imprevisti e che, prima si impara a conviverci e ad affrontarli con nonchalance, prima si evita di morire di paura/ansia e varie altre categorie di nevrosi che non starei qui ad elencare per mancanza di spazio. PuffoMedio, ahimè, dalla tenera età di due anni, ovvero da quando ha smesso di essere un cubo mangiante e non pensante, fa vedere sorci di ogni colore a me e a GrandePuffo, sorci grossi, come nutrie transgeniche, come esseri preistorici dotati di zanne acuminate e zampe chiodate. La sua imperturbabile propensione per il pericolo, per la distrazione, per una vivacità da guinnes dei primati, rende difficile tirare il fiato, rende impossibile vivere non pensando al peggio. Sono una persona ansiosa, ma principalmente per quanto mi riguarda, tendo ad avere paura di malattie e tragedie ma resto concentrata, per questo genere di nevrosi, esclusivamente su me stessa, lasciando sgombra la mente per quello che concerne familiari e affini. Vivo, da sempre, la maternità e la genitorialità con la giusta dose (questo è quello che penso io ovviamente) di serenità e spirito gipsy, convinta che, preoccuparsi troppo non serva ad altro che a tirarsi addosso le sfighe. Diciamo però che, con PuffoMedio, la sfumatura gipsy dev’essere leggermente revisionata. Anni fa, nemmeno troppi a dirla tutta, è sgattaiolato sotto un tir facendo perdere cent’anni di vita alle sue insegnanti e a me di riflesso quando sono venuta conoscenza dell’accaduto. Sabato, in gita a Venezia con i gemellati di Ceska, ha reso possibile una mutazione che presto mi toccherà personalmente e che mi farà somigliare stupendamente e tragicamente ad Anna, la sorella stordita di Elsa, protagonista del meraviglioso film Frozen. PuffoMedio si è perso, a Venezia, il primo sabato pomeriggio di vera primavera, mentre acquistava un cadeau per la sua gemellata e credeva, ignaro di quello che gli capitava intorno, che con lui ci fosse un adulto. Si è perso e ha telefonato alla Sottoscritta che, in preda al panico ed al terrore ha capito, davvero, perché il detto parli di piezz’e core….il mio si è frantumato e ricomposto nel giro di un quarto d’ora degno di un film di Stephen King. PuffoMedio si è perso, a Venezia, in mezzo a calle tutte uguali e ponti così simili da sembrare il disegno ripetuto in loop di un bambino dell’asilo, si è perso, ha perso il gruppo, e guardandosi intorno ha trovato due persone che, Dio sia ringraziato, l’hanno aiutato, rassicurato e prestato il cellulare (che lui non possiede) per fargli chiamare la mamma. La mamma che, al solo ricordo di quei minuti, ha un brivido che parte dal codino e arrivare fino in cima alla massa di ricci che si porta appresso. L’epilogo, felice, ha visto la Sottoscritta contattare l’uomo più buono e gentile del paesello che ha subito attivato i “soccorsi” per ritrovare il bambino sperduto. Perché proprio così possiamo definirlo .. un bambino sperduto, simile a quei pazzoidi urlanti e ballerini amici di Peter Pan e convinti che sia tutto un gioco, un mondo dove regnino la follia e il divertimento, un mondo fantastico dove non si debba avere paura di nulla e dove le regole non esistono, esistono solo le eccezioni (cit. Jova). Con PuffoMedio la vita è così, un’altalena di emozioni che, con un cuore debole, non si possono affrontare. Aspetto trepidante il ciuffo bianco che, a breve, farà capolino nella massa informe dei miei capelli pazzi, a dimostrazione e conclusione di uno spavento che mai in vita mia. Sto iniziando a pensare ad un microchip sotto pelle, tipo quello dei cani, oppure ad un localizzatore, una sorta di scatola nera da appendergli al collo o infilargli … in tasca… Così, giusto per evitare di dover passare alla tinta anziché al riflessante senza ammoniaca.